Nel gennaio 2007, nel corso di una audizione in Commissione Lavoro della Camera (nell’ambito dell’indagine conoscitiva Sulle cause e le dimensioni del precariato nel mondo del lavoro ancora in corso) l’ispettore capo della Ragioneria Generale dello Stato, Giuseppe Lucibelli, ha illustrato dei dati dai quali emerge che le tipologie di lavoro diverse dal rapporto di lavoro a tempo indeterminato (lavoro a tempo determinato, lavoratori socialmente utili, contratti di lavoro interinale e di somministrazione, collaborazioni coordinate e continuative ed incarichi di studio, consulenza e ricerca) nel pubblico impiego sono quantificabili in: 103.349 contratti a tempo determinato, 4.786 contratti di formazione lavoro, 9.067 contratti di somministrazione di manodopera, e 34.457 lavoratori socialmente utili. Ad essi si aggiungono i circa 200 mila cosiddetti «precari storici» della scuola, laddove per precari storici si intendono i docenti inseriti nelle graduatorie per concorsi e titoli – dalle quali si attinge circa il 50 per cento – e quelli delle graduatorie permanenti della legge n. 124 del 1999, che sono comunque soggetti in possesso di abilitazione, o perché hanno conseguito l’idoneità in base a una procedura concorsuale nelle scuole speciali (cosiddette SIS) o in analoghi istituti.
Graziano
14 anni fa
precariato si intende, generalmente, la condizione di quelle persone che vivono, involontariamente, in una situazione lavorativa che rileva, contemporaneamente, due fattori di insicurezza:
1. mancanza di continuità del rapporto di lavoro e certezza sul futuro,
2. mancanza di un reddito adeguato su cui poter contare per pianificare la propria vita presente e futura.
Cosi si fa riferimento al cosiddetto lavoro nero e al fenomeno degenerativo dei contratti cosiddetti flessibili (part-time, contratti a termine, lavoro interinale, lavoro parasubordinato). fenomeni solo indirettamente correlati, ma non sovrapponibili e assimilabili, che si caratterizzano entrambi per l’espansione delle forme contrattuali atipiche.
All’interno degli schemi contrattuali c.d. flessibili, il precariato emerge quando si rilevano contemporaneamente più fattori discriminanti rispetto alla durata, alla copertura assicurativa, alla sicurezza sociale, ai diritti, all’assenza o meno dei meccanismi di anzianità e di Tfr, al quantum del compenso ed al trattamento previdenziale. Il precariato si connota soprattutto come compressione dei diritti del lavoratore dentro gli schemi del mercato del lavoro e limitazione, quando non violazione, dei diritti d’associazione sindacale. Soprattutto la qualità della vita in termini di progettualità personale e sociale.
La presenza in Italia di redditi mediamente più bassi, sia in valore assoluto che in termini di potere d’acquisto , rispetto ad altri paesi dell’Unione Europea pre-2004 o agli USA, risulta solitamente ancora più accentuata ,il che comporta peraltro l’impossibilità di accumulare sufficienti risparmi per affrontare in sicurezza i periodi di disoccupazione e ricerca di nuovo lavoro successivi ad un mancato rinnovo del contratto (condizione invece abituale in quei paesi dove i redditi sono mediamente più alti soprattutto tra i lavoratori flessibili), esponendo quindi il lavoratore al rischio di dover accettare giocoforza lavori ancora più flessibili e meno renumerativi dei precedenti pur di avere un reddito con cui provvedere alla propria sussistenza, creando quindi una forma di retroazione che accentua ulteriormente l’insicurezza e gli altri problemi derivanti dalla precarietà.
In un contesto lavorativo come quello dell’Università italiane, essere precari significa non poter mettere a frutto il proprio titolo di studio – che ai fini reddituali risulta del tutto ininfluente – significa dequalificare il proprio profilo personale. Significa soprattutto gestire gli atenei a costi irrisori e comprimere i redditi di tutti coloro che lavorano e producono(sapere,formazione,brevetti etcr), senza per altro offrire i benefici della flessibilità.
miriam
14 anni fa
Peccato che per il 95% dell’articolo non si parli di precariato e che l’autore sembra più preoccupato per le sorti dei RTI che dei precari, i quali in realtà hanno molto più da perdere.
Graziano
14 anni fa
produrre il tracollo dell’Università con i tagli attuali significa far crollare non solo l’istituzione didattica che va sotto questo nome ma anche l’unica (o quasi) struttura pubblica dedicata alla ricerca. Ed è ben evidente che una didattica che non venga sostenuta dalla ricerca produce stanche e disinformate ripetizioni da parte di un personale docente umiliato che si sentirà sempre più indotto a svolgere i propri compiti per puro dovere di firma. C’è modo di procedere diversamente aumentando semmai finanziamenti da sempre largamente insufficienti, con una distribuzione delle risorse fondata soprattutto sul merito scientifico, con un’incentivazione anche economica che faccia riferimento a questi parametri. i tagli sugli stipendi produrranno l’esatto contrario: la ricerca di compensazioni economiche e d’immagine al di fuori dell’università e l’inclinazione a fare il minimo indispensabile.
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Nel gennaio 2007, nel corso di una audizione in Commissione Lavoro della Camera (nell’ambito dell’indagine conoscitiva Sulle cause e le dimensioni del precariato nel mondo del lavoro ancora in corso) l’ispettore capo della Ragioneria Generale dello Stato, Giuseppe Lucibelli, ha illustrato dei dati dai quali emerge che le tipologie di lavoro diverse dal rapporto di lavoro a tempo indeterminato (lavoro a tempo determinato, lavoratori socialmente utili, contratti di lavoro interinale e di somministrazione, collaborazioni coordinate e continuative ed incarichi di studio, consulenza e ricerca) nel pubblico impiego sono quantificabili in: 103.349 contratti a tempo determinato, 4.786 contratti di formazione lavoro, 9.067 contratti di somministrazione di manodopera, e 34.457 lavoratori socialmente utili. Ad essi si aggiungono i circa 200 mila cosiddetti «precari storici» della scuola, laddove per precari storici si intendono i docenti inseriti nelle graduatorie per concorsi e titoli – dalle quali si attinge circa il 50 per cento – e quelli delle graduatorie permanenti della legge n. 124 del 1999, che sono comunque soggetti in possesso di abilitazione, o perché hanno conseguito l’idoneità in base a una procedura concorsuale nelle scuole speciali (cosiddette SIS) o in analoghi istituti.
precariato si intende, generalmente, la condizione di quelle persone che vivono, involontariamente, in una situazione lavorativa che rileva, contemporaneamente, due fattori di insicurezza:
1. mancanza di continuità del rapporto di lavoro e certezza sul futuro,
2. mancanza di un reddito adeguato su cui poter contare per pianificare la propria vita presente e futura.
Cosi si fa riferimento al cosiddetto lavoro nero e al fenomeno degenerativo dei contratti cosiddetti flessibili (part-time, contratti a termine, lavoro interinale, lavoro parasubordinato). fenomeni solo indirettamente correlati, ma non sovrapponibili e assimilabili, che si caratterizzano entrambi per l’espansione delle forme contrattuali atipiche.
All’interno degli schemi contrattuali c.d. flessibili, il precariato emerge quando si rilevano contemporaneamente più fattori discriminanti rispetto alla durata, alla copertura assicurativa, alla sicurezza sociale, ai diritti, all’assenza o meno dei meccanismi di anzianità e di Tfr, al quantum del compenso ed al trattamento previdenziale. Il precariato si connota soprattutto come compressione dei diritti del lavoratore dentro gli schemi del mercato del lavoro e limitazione, quando non violazione, dei diritti d’associazione sindacale. Soprattutto la qualità della vita in termini di progettualità personale e sociale.
La presenza in Italia di redditi mediamente più bassi, sia in valore assoluto che in termini di potere d’acquisto , rispetto ad altri paesi dell’Unione Europea pre-2004 o agli USA, risulta solitamente ancora più accentuata ,il che comporta peraltro l’impossibilità di accumulare sufficienti risparmi per affrontare in sicurezza i periodi di disoccupazione e ricerca di nuovo lavoro successivi ad un mancato rinnovo del contratto (condizione invece abituale in quei paesi dove i redditi sono mediamente più alti soprattutto tra i lavoratori flessibili), esponendo quindi il lavoratore al rischio di dover accettare giocoforza lavori ancora più flessibili e meno renumerativi dei precedenti pur di avere un reddito con cui provvedere alla propria sussistenza, creando quindi una forma di retroazione che accentua ulteriormente l’insicurezza e gli altri problemi derivanti dalla precarietà.
In un contesto lavorativo come quello dell’Università italiane, essere precari significa non poter mettere a frutto il proprio titolo di studio – che ai fini reddituali risulta del tutto ininfluente – significa dequalificare il proprio profilo personale. Significa soprattutto gestire gli atenei a costi irrisori e comprimere i redditi di tutti coloro che lavorano e producono(sapere,formazione,brevetti etcr), senza per altro offrire i benefici della flessibilità.
Peccato che per il 95% dell’articolo non si parli di precariato e che l’autore sembra più preoccupato per le sorti dei RTI che dei precari, i quali in realtà hanno molto più da perdere.
produrre il tracollo dell’Università con i tagli attuali significa far crollare non solo l’istituzione didattica che va sotto questo nome ma anche l’unica (o quasi) struttura pubblica dedicata alla ricerca. Ed è ben evidente che una didattica che non venga sostenuta dalla ricerca produce stanche e disinformate ripetizioni da parte di un personale docente umiliato che si sentirà sempre più indotto a svolgere i propri compiti per puro dovere di firma. C’è modo di procedere diversamente aumentando semmai finanziamenti da sempre largamente insufficienti, con una distribuzione delle risorse fondata soprattutto sul merito scientifico, con un’incentivazione anche economica che faccia riferimento a questi parametri. i tagli sugli stipendi produrranno l’esatto contrario: la ricerca di compensazioni economiche e d’immagine al di fuori dell’università e l’inclinazione a fare il minimo indispensabile.