I DOCENTI PROFESSIONISTI
di Nicola Scannicchio dell’Università di Bari
Sono in generale d’ accordo con le osservazioni di Floriani, ma sono d’ accordo in particolare con la sua descrizione della assenza di reazioni del corpo docente – che più volte anch’io ho lamentato – e delle sue ragioni. A queste però ne va aggiunta – per la mia esperienza – una ulteriore, forse ancora più determinante, della quale poco si parla e che è invece perfettamente congeniale allo “spirito” della sedicente riforma.
Si tratta dell’ altissima componente professionale presente in moltissime facoltà della ns università la quale, nella maggioranza dei casi, ha già cessato da lustri di interessarsi alle sue vicende scientifiche, essendo viceversa unicamente interessata al lustro delle proprie attività professionali ed alla rinomanza che la qualifica di docente conferisce a QUELLE.
Noi viviamo ormai da decenni una vita ed una situazione universitaria che si svolge in Consigli di Facoltà semivuoti, uffici di docenti presidiati da pochissime persone, quasi tutti precari e ricercatori, logiche di gestione, programmazione e selezione delle attività e del personale molto spesso già preliminarmente asservite ad accordi funzionali ad attività professionali. In altre parole il famoso “raccordo fra l’ università, la società ed il mercato” di cui parla la riforma (ma già da prima tutte le forze politiche ci hanno allietato con questo motivetto) esiste già in Italia dal decenni ed è, naturalmente, configurato all’ italiana in quanto rapporto personale e diretto di buona parte (in molte facoltà della maggioranza) dei docenti con il mercato, nel senso “proprio”, del luogo dove stanno ed operano i mercanti, indipendentemente dalla presenza di un risibile numero di questi nei Consigli di amministrazione.
Va aggiunto che nel corso di questi decenni nè la classe politica, nè la classe docente hanno mosso un dito per ripristinare un rapporto corretto fra la componente professionale (che è pure necessaria) e quella scientifica dell’ Università, ad esempio sterilizzando gli organi deliberativi dalla presenza della prima (e dal conseguente asservimento alle logiche professionali) su tutte le questioni che riguardano il governo della componente “scientifica” e “didattica”, come avviene in tuti i paesi civili; nonchè anche sterilizzando in senso inverso gli organismi professionali dalla presenza di “sedicenti” componenti “universitarie” (il caso di avvocati che presiedono le scuole di specializzazione “universitarie” e di “docenti universitari” chiamati a rappresentare “la scienza” nei consigli dell’ ordine professionale, che risultano poi essere avvocati anch’ essi, non desta alcuna meraviglia e, soprattutto, non la ha mai destata).
Su questo si potrebbe continuare a lungo, osservando ad esempio che il raddoppio dei tempi della didattica ha un senso per chi la esercita, ma per chi manda i propri assistenti si risolve in una “assenza” per un tempo raddoppiato; che il proliferare delle incombenze amministrative dovute aalla messa in opera delle svariate riforme, alla “aziendalizzazione”, alla partecipazione ai “progetti” vitali per il finanziamento etc.,si va a scaricare interamente sulle poche forze “residuali” rispetto agli impegni professionali, etc. Mi limito ad osservare che c’ è n’ è d’ avanzo per comprendere, se non per giustificare, la stanchezza e l’ angoscia con cui anche le componenti più vive assistono alla rovina che la circondano. Combattere (per che cosa ?) sul fronte può essere doveroso, ma non può rimanere doveroso per decenni. Alla fine, come qualcuno ha scritto, si scopre che anche la sconfitta ha una sua tragica grandezza.
Non concerne invece la grandezza, ma la gretta piccolezza, l’ esito paradossale che tutta questa vicenda ha sotto l’ aspetto che ho cercato di descrivere. Vale a dire che essa si risolve in definitiva nella globale svalutazione formale e sostanziale della dignità, del valore e dell’ importanza sociale della “qualifica” (etichetta)di “professore universitario”: vale a dire precisamente dell’ unico aspetto che principalmente interessa la componente professionale ed in nome del quale essa ha rinunciato a difendere ed ha invece praticato la svendita della “sostanza” del ruolo.
Un ragionamento da “furbi”, assai poco intelligenti. Il che, tra l’ altro, la dice anche lunga sulle capacità “scientifiche” della nostra classe docente.
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I DOCENTI PROFESSIONISTI
di Nicola Scannicchio dell’Università di Bari
Sono in generale d’ accordo con le osservazioni di Floriani, ma sono d’ accordo in particolare con la sua descrizione della assenza di reazioni del corpo docente – che più volte anch’io ho lamentato – e delle sue ragioni. A queste però ne va aggiunta – per la mia esperienza – una ulteriore, forse ancora più determinante, della quale poco si parla e che è invece perfettamente congeniale allo “spirito” della sedicente riforma.
Si tratta dell’ altissima componente professionale presente in moltissime facoltà della ns università la quale, nella maggioranza dei casi, ha già cessato da lustri di interessarsi alle sue vicende scientifiche, essendo viceversa unicamente interessata al lustro delle proprie attività professionali ed alla rinomanza che la qualifica di docente conferisce a QUELLE.
Noi viviamo ormai da decenni una vita ed una situazione universitaria che si svolge in Consigli di Facoltà semivuoti, uffici di docenti presidiati da pochissime persone, quasi tutti precari e ricercatori, logiche di gestione, programmazione e selezione delle attività e del personale molto spesso già preliminarmente asservite ad accordi funzionali ad attività professionali. In altre parole il famoso “raccordo fra l’ università, la società ed il mercato” di cui parla la riforma (ma già da prima tutte le forze politiche ci hanno allietato con questo motivetto) esiste già in Italia dal decenni ed è, naturalmente, configurato all’ italiana in quanto rapporto personale e diretto di buona parte (in molte facoltà della maggioranza) dei docenti con il mercato, nel senso “proprio”, del luogo dove stanno ed operano i mercanti, indipendentemente dalla presenza di un risibile numero di questi nei Consigli di amministrazione.
Va aggiunto che nel corso di questi decenni nè la classe politica, nè la classe docente hanno mosso un dito per ripristinare un rapporto corretto fra la componente professionale (che è pure necessaria) e quella scientifica dell’ Università, ad esempio sterilizzando gli organi deliberativi dalla presenza della prima (e dal conseguente asservimento alle logiche professionali) su tutte le questioni che riguardano il governo della componente “scientifica” e “didattica”, come avviene in tuti i paesi civili; nonchè anche sterilizzando in senso inverso gli organismi professionali dalla presenza di “sedicenti” componenti “universitarie” (il caso di avvocati che presiedono le scuole di specializzazione “universitarie” e di “docenti universitari” chiamati a rappresentare “la scienza” nei consigli dell’ ordine professionale, che risultano poi essere avvocati anch’ essi, non desta alcuna meraviglia e, soprattutto, non la ha mai destata).
Su questo si potrebbe continuare a lungo, osservando ad esempio che il raddoppio dei tempi della didattica ha un senso per chi la esercita, ma per chi manda i propri assistenti si risolve in una “assenza” per un tempo raddoppiato; che il proliferare delle incombenze amministrative dovute aalla messa in opera delle svariate riforme, alla “aziendalizzazione”, alla partecipazione ai “progetti” vitali per il finanziamento etc.,si va a scaricare interamente sulle poche forze “residuali” rispetto agli impegni professionali, etc. Mi limito ad osservare che c’ è n’ è d’ avanzo per comprendere, se non per giustificare, la stanchezza e l’ angoscia con cui anche le componenti più vive assistono alla rovina che la circondano. Combattere (per che cosa ?) sul fronte può essere doveroso, ma non può rimanere doveroso per decenni. Alla fine, come qualcuno ha scritto, si scopre che anche la sconfitta ha una sua tragica grandezza.
Non concerne invece la grandezza, ma la gretta piccolezza, l’ esito paradossale che tutta questa vicenda ha sotto l’ aspetto che ho cercato di descrivere. Vale a dire che essa si risolve in definitiva nella globale svalutazione formale e sostanziale della dignità, del valore e dell’ importanza sociale della “qualifica” (etichetta)di “professore universitario”: vale a dire precisamente dell’ unico aspetto che principalmente interessa la componente professionale ed in nome del quale essa ha rinunciato a difendere ed ha invece praticato la svendita della “sostanza” del ruolo.
Un ragionamento da “furbi”, assai poco intelligenti. Il che, tra l’ altro, la dice anche lunga sulle capacità “scientifiche” della nostra classe docente.