= 18.11.11. ANDU-UNIME: il Rettore si dimetta. V. anche un articolo su Corriere del Mezzogiorno dell’11.11.11.
= 29.10.11. “SCOSSONE ALL’UNIVERSITA’ Il Tar annulla la proroga di un anno del mandato di Tomasello e degli altri organi elettivi” (clicca qui).
La sentenza del TAR e le varie posizioni, tra le quali quella dell’ANDU.
= 22.10.10. Dimissioni del Preside di Scienze non accolte: notizia, articolo e comunicato ANDU.
= 11.10.10. Lettera del Preside della Facoltà di Scienze indirizzata agli Studenti e ai Genitori.
= 1.10.10. Il 30 settembre scorso si è svolta un’Assemblea di Ateneo su “Una Università autonoma, democratica, utile al Paese”. All’Assemblea, promossa dall’ANDU, hanno partecipato oltre 100 docenti e studenti. In coda all’Assemblea si è tenuta la riunione degli iscritti all’ANDU che ha eletto il Coordinatore (Muaro Federico) e l’Esecutivo (Mauro Federico, Franco Caruso e Luigia Puccio) di Ateneo e i delegati (Mauro Federico e Franco Caruso) al prossimo Congresso nazionale. V. anche articolo sull’Assemblea di Messina Notizie.
= 30 settembre 2010. Assemblea di Ateneo alle 16 promossa dall’ANDU: locandina aggiornata.
= 29.9.10. Il Senato Accademico rinvia l’inizio delle lezioni.
= AGGIORNAMENTO del 28.7.10. Lauree di Informatica: lettura documento a studenti e famiglie.
= AGGIORNAMENTO del 20.7.10. Documento del Consiglio della Facoltà di Lettere dell’8 luglio 2010. Intervento della delegata del movimento dei ricercatori alla II Giornata della Ricerca.
= AGGIORNAMENTO del 7.7.10. “Perchè sto protestando”: lettera di un ricercatore. Il Senato Accademico contro il DDL e la la Manovra finanziaria.
= AGGIORNAMENTO dell’1.7.10. Documento dell’Assemblea di Ateneo dell’1 luglio 2010.
= AGGIORNAMENTO del 28.6.10. “Atenei, l’ammutinamento. Parte la rivolta contro il ministro che mette a rischio l’offerta didattica” su Centonove.
= AGGIORNAMENTO del 23.6.10. I Ricercatori di Lettere contro il DDL e la Manovra finaziaria: un articolo sulla Gazzetta del Sud del 23.6.10.
= AGGIORNAMENTO DEL 21.6.10: il 17.6.10 CdF di Economia contro il DDL, la Manovra e la CRUI che “in modo inverecondo esprime plauso al governo per il lavoro svolto nell’ambito della commissione senatoriale.”
Sulla scorta di questo documento la Facoltà si è trovata nell’impossibilità di stabilire, in questa fase, l’impegno didattico che potrà essere assunto dai suoi docenti e, quindi, ha rinviato il punto all’ordine del giorno.
I docenti della Facoltà di Economia hanno, inoltre, dichiarato di volere partecipare massicciamente all’Assemblea di Ateneo del 1° luglio 2010.
= AGGIORNAMENTO DEL 12.6.10: lettera al Ministro del Preside di Scienze.
= AGGIORNAMENTO DEL 17.5.10:
1. Invitiamo a leggere l’interessante intervento sul DDl svolto dal Mauro Federico, coordinatore dell’ANDU di Messina.
2. Le iniziative per la Settimana nazionale di mobilitazione contro il DDL.
3. L’ANDU e la FIRU contro la proroga delle cariche accademiche.
= AGGIORNAMENTO del 4.5.10: Pieno appoggio del Senato Accademico ai ricercatori.
= AGGIORNAMENTO del 30.4.10: in un Comunicato Andu, Firu, Cgil, Cisl, Uil, Consal/Snals e Cisal “invitano l’Amministrazione e gli organi accademici ad una presa d’atto della nuova situazione” dovuta alla sospensione della rottamazione dei ricercatori da parte del TAR del Lazio.
= AGGIORNAMENTO del 21.6.10: Articolo sul Sole 24-ore del 20.4.10: “No a uscite forzate per i ricercatori”.
= AGGIORNAMENTO del 16.4.10: Testo dell’Ordinanza del 14.4.10 del TAR del Lazio che sospende la rottamazione dei ricercatori. Si segnalano gli articoli del 16 aprile 2010 sulla Gazzetta del Sud (“Sospesi i pensionamenti dei ricercatori dell’Ateneo”) e su Centonove (“La vittoria dei ricercatori”) che danno notizia della sospensione del TAR del Lazio della rottamazione dei ricercatori dell’Universita’ di Messina.
Contro la rottamazione dei ricercatori si segnalano ancora gli importanti pareri legali dei ricercatori e dell’Ufficio legale dell’Università di Siena che hanno portato all’interruzione della procedura per la rottamazione.
1. ROTTAMAZIONE A MESSINA
2. RETTORI. SE INVECE DI ROTTAMARE SI ROTTAMASSERO?
3. NOTA GIURIDICA SULLA ROTTAMAZIONE
1. ROTTAMAZIONE A MESSINA
da “Tempo Stretto“:
“CONTRO LA ROTTAMAZIONE DEI RICERCATORI SCENDE IN CAMPO ANCHE L’ANDU
Anche l’A.N.D.U. (Associazione nazionale docenti universitari) dice no alla “rottamazione” dei ricercatori.
In un comunicato firmato dal coordinatore provvisorio Mauro Federico, l’associazione prende una posizione netta contro la scelta dell’Universitaà di mandare a casa oltre 50 ricercatori che hanno raggiunto 40 anni di anzianità.
“All’Università di Messina- si legge nel documento – cominciano ad arrivare le prime lettere con il preavviso di licenziamento a danno di quei Ricercatori che, ironia della sorte, hanno pagato di tasca propria per una più serena pensione e che adesso si ritrovano ad essere buttati fuori in anticipo rispetto a quanto il loro contratto statuiva”.
Secondo il Prof. Federico il provvedimento è stato adottato dall’Università senza “una riflessione comune, senza una spiegazione, ne’ una motivazione per giustificare il perchè di una scelta, quella della rottamazione, avvenuta troppo in fretta. In piene feste natalizie”. “La decisione assunta dall’Università di Messina – si legge – travalica i confini locali ed assurge all’analisi nazionale per due ordini di motivi: ’Università messinese e’ il primo grande ateneo nazionale che, nel 2010 e rispetto alla seconda stesura della famigerata Norma, licenzia i Ricercatori. Inoltre, la modalità con cui gli Organi di Governo si sono espressi evidenzia una spaccatura del mondo accademico, sintomo di una aumentata presa di coscienza della questione universitaria in generale”.
Per quanto evidenziato, quindi, l’ANDU contesta, nella forma e nella sostanza, il provvedimento adottato dall’Amministrazione dell’Università di Messina e invita quest’ultima a non sottrarsi al confronto democratico con le associazioni dei Docenti.
Il prof. Federico chiede a nome dell’Associazione la sospensione della procedura e comunica che a breve convocherà una Assemblea di Ateneo rivolta a tutti i docenti dell’Università peloritana.
2. RETTORI. SE INVECE DI ROTTAMARE SI ROTTAMASSERO?
di Francesco Musacchia dell’Università di Palermo
La notizia che l’Università di Messina abbia avviato le procedure di rottamazione dei ricercatori con 40 anni di anzianità contributiva (v. sotto), prima che indignazione, produce sconforto. Come è possibile, c’è da chiedersi, che si rinunci a ben 50 docenti, a fronte di una offerta didattica che, al contrario, richiederebbe di incrementare gli organici? Che didattica verrà offerta agli studenti, carne da macello indiretta di questo provvedimento? Oggi l’imperativo categorico sembra essere quello di tagliare costi senza riflettere sulle conseguenze, quando è noto che dalle crisi si esce molto meglio investendo e non disinvestendo. Questa politica rinunciataria alla quale alcuni atenei sembrano volersi conformare pone un interrogativo serio sulla reale adeguatezza degli attuali vertici di molti atenei di essere all’altezza di guidare questa fase critica dell’Università italiana.
Il “dopo di me il diluvio” attribuito a Luigi XIV non può e non deve essere il principio ispiratore della politica dei rettori dei nostri atenei.
Esiste, anche se poco praticato, l’istituto delle dimissioni, quando si ritiene di non essere in grado di assolvere alle proprie funzioni. in modo almeno dignitoso. Questo istituto, che poco meno di mille anni fa, lo ha praticato anche un Papa, perché oggi non può praticarlo anche un rettore?
Molti rettori sembra che, pur di rimanere inchiodati alla loro poltrona siano disposti a mandare in malora i rispettivi atenei.
3. NOTA GIURIDICA SULLA ROTTAMAZIONE
di Santa Micali dell’Università di Messina
Sull’interpretazione ed applicazione dell’ Art. 17 L.n.102/09 commi 35 nonies e decies (relativo alla possibilità di risoluzione del rapporto di lavoro da parte delle Pubbliche Amministrazioni) va preliminarmente sottolineato che trattasi di una “facoltà” sicché già con riguardo al personale non docente dell’Università cui, pacificamente, è applicabile occorre predeterminare i criteri e motivare caso per caso.
Diversamente operando gli atti dell’Amministrazione potrebbero essere viziati per eccesso di potere o addirittura sconfinare nell’arbitrio, con i conseguenti effetti rilevabili nelle opportune e diverse sedi processuali.
Per quanto riguarda l’interpretazione dell’ espressione: “Le disposizioni… non si applicano… ai professori universitari …” e le perplessità che ne sono derivate sull’ applicabilità o meno ai ricercatori universitari, non può non rilevarsi come, in un oscillante quadro normativo (40 anni contributivi, 40 anni di servizio effettivo), l’interpretazione restrittiva orientata al “prepensionamento forzato” dei professori aggregati, ricercatori ed equiparati si fonda sull’esclusivo dato letterale costituito dalla mancata espressa previsione dei “ricercatori”.
In vero, l’espressione legislativa professori, non seguita dai termini “di ruolo, ordinari, associati” è conducente a sostenere l’opposta interpretazione estensiva.
Più chiaramente, è proprio l’indeterminatezza dell’ampia previsione legislativa che legittima l’inclusione e non l’esclusione dei ricercatori.
La semplice omissione dei suddetti termini trova, infatti, la sua “ratio” nella evoluzione normativa[1] sullo “status” e sui compiti dei ricercatori che, incontestata l’unitarietà della funzione docente, porta a riconoscere la non applicabilità della facoltà di risoluzione del rapporto di lavoro ai ricercatori.
Coerentemente al suddetto percorso legislativo l’ interpretazione estensiva della disposizione in oggetto è stata confermata, già in fase di conversione del d.l. n.78/09, dal parere della Commissione P.I. del Senato, successivamente condiviso dal Cipur (16 settembre 2009), dal Cnu (12/02/09 e 26/09/09) e dall’o.d.g. del Senato della Repubblica del 23/09/09 accolto dal Governo.
In proposito, si sottolinea come una diversa un’interpretazione restrittiva, già ad una prima e sommaria lettura, appaia non costituzionalmente orientata (principi di uguaglianza, tutela dei diritti del ricercatore come persona e come docente), si ponga in contrasto con le disposizioni legislative e disattenda i chiarimenti forniti dalla Circolare Brunetta n. 4/2009
Per quanto riguarda il primo profilo si verificherebbe una evidente disparità di trattamento tra ricercatori medici e ricercatori non medici e tra gli stessi ricercatori che sono stati collocati a riposo a 67 anni (65 + 2) e coloro che avendo riscattato a proprie spese gli anni laurea, borsa di studio, specializzazioni, servizio militare, sarebbero collocati a riposo almeno 7 anni prima , nonché con quei ricercatori che superato il periodo transitorio 2011, nella realistica prospettiva di un prolungamento dell’età pensionabile, per adeguarsi alle indicazioni dell’Unione Europea (es. età pensionabile delle donne a 65 anni), potrebbero andare in pensione a 70 anni (v. Nota MIUR n.160 del settembre 2009 in nota 17 in corso di approvazione).
Per quanto riguarda il secondo profilo, lo stesso legislatore, considerata l’ indiscussa peculiarità della tipologia di lavoro intellettuale (attività di docenza) dei professori e ricercatori, ha accomunato il trattamento economico dei ricercatori, parametrandolo a quello dei professori ordinari ed associati, non ha stabilito un orario di lavoro settimanale ed ha sancito che fanno parte del personale pubblico non contrattualizzato.
Inoltre, sempre il legislatore li ha conteggiati a) ai fini della verifica dei requisiti minimi per consentire la sostenibilità dell’offerta formativa e per le limitazioni al reclutamento ne prevede il conteggio ai fini dei requisiti necessari, specificatamente “limitatamente agli incarichi di insegnamento conferiti a professori e ricercatori collocati a riposo,” (v. cit. Nota MIUR n.160 )
Per quanto riguarda il terzo profilo la Circolare Brunetta n.4/2009 ha espressamente considerato 1) i medici del SSNN (non solo i titolari di strutture complesse v. lett. e), ha sottolineato
2) l’eccezionalità e temporaneità della previsione limitata al 2011, ed ha fatto riferimento
3) al fabbisogno professionale reale (lett. d)
Su quest’ultimo punto si rileva come si potrebbe verificare un palese contrasto con le politiche di reclutamento intraprese.
Infatti, premesso che i ricercatori hanno sostenuto con i requisiti minimi l’offerta formativa a costi inferiori rispetto a quelli sostenuti per i professori ordinari ed associati e che sono previste limitazioni al reclutamento del “personale docente di ruolo” (espressione adoperata dal legislatore che senza dubbio include i ricercatori), appare ragionevole una seria politica universitaria di “turnover controllato”, non di risoluzione del rapporto di lavoro per i soli ricercatori e “professori aggregati”.
Ed ancora, la stessa Circolare rinviando per la “facoltà” di risoluzione del rapporto di lavoro espressamente all’art. 3 d.lgs 30/03/01 n.165 (T.U. Pubblico impiego)
4) esclude i ricercatori che fanno parte del personale pubblico non contrattualizzato.
Per quanto esposto le contingenti esigenze di cassa, non appaiono supportate da una adeguata valutazione dei costi e dei benefici, sicché eventuali provvedimenti di risoluzione del rapporto di lavoro dei ricercatori potrebbero aggravare le difficoltà finanziarie in cui si dibatte la nostra Università (non diversamente, né più gravemente di altre, come si continua ad affermare ).
Infatti, si verificherebbero effetti negativi incalcolabili per gli studenti (interruzione e chiusura dei corsi anche di base) e costi elevati per la realistica previsione degli esiti del contenzioso (amministrativo, civile e contabile) in un quadro legislativo che pone limiti al reclutamento ed in un contesto di crescenti legittime richieste di servizi più qualificati da parte degli studenti.
Non può non sottolinearsi, inoltre, come lo Statuto dell’Università di Messina preveda in materia di elettorato passivo per i rappresentanti di area, il voto degli ordinari, associati e ricercatori: i ricercatori sono eletti anche dagli ordinari e dagli associati.
Infine, una Università che ha approvato un Codice Etico, che proclama la valorizzazione del merito, non può emanare atti non condivisibili proprio sul piano etico, confliggenti con le regole ed i criteri della buona amministrazione.
A conclusione, vorrei profilare una soluzione che, oltre ad essere compatibile con una interpretazione logico-sistematica della l. n. 102/2009 (che prevede in prima istanza “la richiesta di esonero” cioè l’iniziativa del singolo) e non lesiva dei diritti dei ricercatori, risulterebbe più efficiente e più efficace, eviterebbe il contenzioso (sul punto v. la Circ. Brunetta n. 4/2009 n. 1 lett. e) ).
Mi riferisco alla scelta di incentivare il pensionamento volontario di tutti i docenti (prof. ordinari, associati, ricercatori) con attribuzione di un contratto d’insegnamento retribuito, anche se in misura ridotta.
Santa Micali
[1] Per quanto riguarda i riferimenti legislativi ci si riferisce al D.P.R. n. 382/1980 che agli artt. 32, 34 e 114 testualmente ha previsto la possibilità del conferimento di affidamenti e supplenze “esclusivamente a prof. di ruolo e a ricercatori confermati” la specificazione prof. di ruolo conferma quanto sopra osservato.
La legge 341/1990 all’art. 12 “Attività di docenza” così recita “le strutture didattiche attribuiscono l’affidamento e la supplenza di ulteriori corsi o moduli ai professori ed ai ricercatori”
Legge 21 giugno 1995 n.236 “affidamenti e supplenze retribuite ai professori e ricercatori”
La legge n 230 del 4 novembre 2005 all’art. 5 comma 11 ribadisce la possibilità di affidare ai ricercatori (ed equiparati) che hanno svolto tre anni di servizio ai sensi dell’art. 12 della legge 19/11/1990 n.341 attribuendo il “titolo di professore aggregato”
Non è trascurabile infine il Disegno di legge della XIV legislatura che aveva previsto la terza fascia docente.
PERCHE’ PENSIONARE PRIMA?
di Renato Migliorato dell’Università di Messina
Com’è ben noto, e tacitamente scontato nelle conversazioni private, la carriera universitaria dipende per un terzo (poco più o poco meno) dall’effetivo merito scientifico, per un terzo dalla fortuna e per il rimanente terzo dalla capacità propria e dei propri protettori di tessere rapporti nel mondo accademico locale, nazionale e internazionale. Deriva da qui il fallimento dell’Università? Non credo, ma fate voi…
E veniamo dunque al servizio oltre i 70 anni: Lasciare solo i più “meritevoli” come nella tradizione anglosassone? Andrei cauto con il portare in Italia le tradizioni anglosassoni. Siamo certi che qui si riesca davvero a distinguere il valore dal potere?
Ma quello che non riesco a comprendere è il motivo per cui il permanere in servizio oltre l’età pensionabile debba essere antieconomico. Lo sarebbe certamente se a chi cessa il servizio non si dovesse pagare un’adeguata pensione. Non c’è alcun dubbio che la produttività e l’ideazione creativa di un anziano è molto ridotta rspetto a quella di un giovane (anche se spesso può mettere a frutto una memoria storica e una visione più ampia). Ma non capisco perchè pagarlo a vuoto sia poi così conveniente. O forse la logica del 2+2=4 non è valida in questo genere di cose? Certo a pagare la pensione non è direttamente l’amministrazione universitaria. Ma se invece guardassimo dal punto di vista del sistema paese? Ammesso che questo sia davvero interesato ad investire nella cultura! Da qui si vede la miseria di certa politica e la ristrettezza delle visioni limitate ai piccoli orticelli domestici.
ROTTAMAZIONE, FALLIMENTO DELL’UNIVERSITA’
di Roberto Caimmi dell’Università di Padova
Il fallimento dell’Universita’ non e’ da intendersi alla stregua del passivo di un’azienda dove al primo posto stanno gli interessi dei padroni, bensi’ alla stregua della venuta meno di quei valori che nel corso dei secoli ne sono stati la linfa vitale.
In quest’ultima accezione, il fallimento dell’Universita’ e’ tutto in quei suoi stessi figli, i quali buttano fango sui loro fratelli “che arrivano ancora tali dopo 40 anni” per non aver mai rinnegato i suddetti valori, seguendo la via della Conoscenza.
Gli ultimi saranno i primi, e i primi saranno gli ultimi.
(Il Ministro non si rallegri: Nostro Signore non si riferiva alla statura, ne’ tantomeno al quoziente d’intelligenza…).
TUTTI IN PENSIONE A 62 ANNI … IN GIAPPONE
di Teresa Ciapparoni La Rocca dell’Università di Roma “La Sapienza”
Giusto una testimonianza (anni 68, in pensione da novembre). In Giappone si va (non esistono precari della professoralita’ ma solo ordinari o associati) in pensione a 62 anni. Poi, i capaci e famosi vengono presi a contratto da altre universita’, sia minori che famose, gli altri si trovano un qualche lavoro sino a quando, due o tre anni dopo, riceveranno la pensione.
In bocca ai lupi (e’ dimostrato che ne esistono diversi..)
Teresa Ciapparoni La Rocca
Lingua, letteratura, cultura del Giappone
TUTTI IN PENSIONE A 65 ANNI
di Mauro Degli Esposti
Sono completamente d’accordo con il collega Graziano di Catania. Omogeneizzare il trattmanto di quiescenza a tutto il personale docente italiano a 65 anni con opzione di rimanere a fare riecerca o didattica previa accurata valutazione.
IL DESERTO SARA’ LA LORO STESSA CASA
di Giancarla Oteri dell’Università di Messina
Quanti sono i professori, compresi gli ordinari attuali, che sono divenuti
associati per titolo ed esami e quanti quelli divenuti tali “ope legis”, a
discapito di tutti quei ricercatori che non avendo i “mezzi” per risultare
idonei per la stessa LEGGE si sono viste respinte le richieste? Ma per non
voler fare una guerra tra poveri vorrei ricordare a tutti coloro che sono
assetati di un potere sconfinato e reggono le sorti di chi non essendo
nell’ottica di abusare del potere non ne sono automaticamente degni che il
deserto che verrà lasciato sarà la loro stessa casa. Assisto da anni ad un
degrado che ancor prima di partire dalla demotivazione di chi non è stato
mai incentivato parte da chi teme la competizione ed abbassa il livello
della stessa perchè tanti rientrino sotto quell’ombrello di bassa
competitività.
Oggi i Cristi crocifissi giorno per giorno siamo noi ma domani, per logica,
lo saranno tutti!
Gli amici, il potere troveranno sulla loro strada ciò che avranno seminato
e, se pure talvolta tra coloro che beneficiano del nepotismo vi sia qualcuno
di qualità, la preparazione attuale di molti giovani è talmente scadente (vedi in ciò una classe dirigente inadeguata) che guai a chi avrà bisogno!
Creare pochi poli di eccellenza, se anche si potrà, significherà, nel
nostro campo, SALUTE PER POCHI!
Per quel che mi riguarda rimango al mio posto per mero desiderio di
adempiere alla mia missione di medico, di ricercatore scientifico ed umano e
mi nutro delle parole che tanti pazienti mi hanno rivolto durante tutto il
tempo del mio “servizio”: “Prima DIO e poi lei”.
Auguro a tutti di poter riposare la notte confortato dalle stesse parole.
ABOLIRE GLI ORDINARI
di Gabriele Ciampi dell’Università di Firenze
Lo status sociale ed economico che l’ordinamento universitario conferisce alla fascia dei professori ordinari è oggi giustificato quanto lo era 100 anni fa, quando metà della popolazione italiana era analfabeta ?
Certamente, rispetto ad allora, o anche solo a 40 anni fa, l’istruzione è oggi complessivamente più diffusa e i centri di ricerca, i luoghi di produzione e di diffusione dalla cultura culta sono più numerosi. Persone e personale intellettuale di un livello paragonabile a quello dei professori ordinari, si trovano oggi anche in ambiti esterni all’Università, con una frequenza ben superiore a quella di pochi anni fa.
In altre parole, la distanza tra la mediana del livello di preparazione intellettuale e
gli estremi dell’universo culturale italiano odierno, è fortemente ridotta rispetto al passato. Ovverosia: l’eccellenza non è più eccezionale.
Per questi motivi, mal si giustifica la perdurante attribuzione di un così elevato status sociale e trattamento economico al gruppo di lavoratori intellettuali inquadrato nella prima fascia di docenti.
Inoltre, tale fascia di personale universitario svolge di fatto in misura prevalente varie attività di carattere amministrativo, manageriale, editoriale, per le quali non ha in genere preparazione e non dovrebbe avere neppure attitudine, né gradimento.
L’attività scientifica in primis e didattica in secundis – che di tale categoria professionale sono l’unica ragion d’essere – ne soffrono inevitabilmente. L’età fa il resto.
La ricerca scientifica è probabilmente l’attività più faticosa che la mente umana possa svolgere. E’ facile che, con l’alibi dei pressanti impegni organizzativi, la coscienza di molti ordinari plachi gli eventuali sensi di colpa per la propria fuga dalla ricerca. Nell’ambito di quest’ultima essi tendono a svolgere per lo più compiti c.d. organizzativi, peraltro inopinatamente inclusi dalla legge nei compiti e nei meriti che possono essere loro riconosciuti: in pratica essi si impegnano per lo più spesso in lotte per il reperimento di risorse finanziarie. Ma, per via di questo, inevitabilmente ne viene impoverita anche la qualità della didattica universitaria, la quale dovrebbe consistere proprio nel travaso diretto del fior fiore dell’espeirenza personale di ricerca nell’aula degli studenti – in ciò distinguendosi dalla didattica scolastica, che dovrebbe utilizzare contenuti maggiormente sedimentati.
Ergo, il grado massimo raggiungibile nella gerarchia universitaria dovrebbe, corrispondere a quello degli attuali associati, magari pagati nella misura in cui lo sono oggi i ricercatori. Questi ultimi dovrebbero essere a tempo determinato, come erano un tempo gli assistenti (almeno 10 anni), con la garanzia di un posto di lavoro
alternativo in caso di mancata vincita di un concorso a professore; e magari uno stipendio non superiore a quello dell’insegnante di ruolo della scuola secondaria superiore.
Forse così si attenuerebbe, nel personale universitario, quella presunzione di potenza e impunità che molti degli attuali ordinari ludicamente esprimono durante le manovre della loro gioiosa macchina da guerra, che rende possibile, non solo la fuga dalla fatica
della ricerca, ma sovente anche il sabotaggio delle ricerche altrui.
Senza gli ordinari, l’Università costerebbe meno, maggiore sarebbe il numero di ricercatori che essa potrebbe far lavorare e maggiori investimenti potrebbero essere dirottati su chi la ricerca non si limita a organizzarla, ma la fa tutti i giorni, tutta la vita. Gabriele Ciampi
Ricercatore dell’Università di Firenze
TUTTI I DOCENTI IN PENSIONE 65 ANNI
di Antonino Graziano dell’Università di Catania
all’articolo 5, comma 3, del provvedimento in esame
In riferimento al comma 11 dell’articolo 72 del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133 – che la facoltà per le amministrazioni pubbliche, in caso di compimento dell’anzianità massima contributiva di 40 anni del personale dipendente, di risolvere, fermo restando quanto previsto dalla disciplina vigente in materia di decorrenze dei trattamenti pensionistici, il rapporto di lavoro con un preavviso di sei mesi, non si applichi, oltre che ai magistrati e ai professori universitari, anche ai dirigenti delle aziende sanitarie locali;
tale ulteriore deroga introdotta per la classe docente italiana che è anche la più vecchia d’Europa: come riportato nel rapporto del Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca, il 55 per cento dei docenti di ruolo supera i 50 anni con una distribuzione dell’età diversa fra le tre fasce. Gli ultra-cinquantenni costituiscono l’82 per cento degli ordinari, il 55 per cento degli associati e il 31 per cento dei ricercatori. Se poi si osserva la fascia d’età degli ordinari, si rileva che il 45 per cento ha più di 60 anni e che addirittura il 24 per cento ne ha oltre 65. Nel panorama internazionale, ed europeo in particolare, l’Italia è tra i paesi con la quota più alta di docenti ultra-cinquantenni;
le cause dell’elevata età media dei docenti sono essenzialmente due:
i tempi troppo lunghi per l’immissione in ruolo dei ricercatori, che avviene secondo percorsi non definiti;
una normativa troppo generosa sull’età pensionabile dei professori ordinari;
il primo aspetto è stato affrontato dal decreto legge n. 180 del 2008 che fissa al 60 per cento la quota di immissione dei ricercatori; il secondo aspetto richiederebbe un intervento mirato di riduzione dell’età pensionabile;
in Italia, i lavoratori vanno in pensione a 65 anni, mentre i professori universitari lo fanno molto più tardi: la legge n. 498 del 1950 introduce la collocazione fuori ruolo a 70 anni e la pensione definitiva a 75. Il limite viene mantenuto fino alla legge n. 382 del 1980 che abbassa l’età di collocamento fuori ruolo a 65 anni e quella della pensione a 70. Un cambiamento superato con la legge n. 230 del 1990 che ripristina la normativa precedente, definendo opzionale il collocamento fuori ruolo a 65 anni. Come se ciò non bastasse, con il decreto legge n. 503 del 1992 si permette ai docenti di rimanere in servizio per un ulteriore biennio oltre il limite di età, innalzando quindi l’età di permanenza in ruolo sino a 72 anni. A questa opzione favorevole si è aggiunta la possibilità di ottenere il fuori ruolo per tre anni in modo automatico;
molti docenti immessi in ruolo negli anni Ottanta godono di questo privilegio, che tuttavia dopo la riforma dell’allora ministro Mussi (articolo 2 della legge finanziaria 2008) è in progressiva abolizione;
infine, la «riforma Moratti», legge n. 203 del 2005, ha abolito la permanenza fuori ruolo e fissa a 70 anni l’età della pensione, ma questo solo per i nuovi assunti;
nei decenni passati, l’idea del pensionamento in tarda età per i professori universitari era in linea di principio condivisibile poiché riconosceva ai pochi professori, provenienti da un duro percorso di selezione, un valore intellettuale e professionale tale da rendere vantaggioso per il sistema universitario una vita lavorativa prolungata;
i cambiamenti legislativi che hanno aumentato il numero degli ordinari e svuotato il processo di selezione con le sanatorie e le idoneità multiple ha però di fatto reso controproducente e costoso per il sistema una vita lavorativa protratta fino a 72 anni e più;
nell’enorme massa dei circa 20 mila ordinari che popolano le facoltà italiane sono difatti ben pochi quelli in grado di rimanere attivi nella ricerca e nella didattica fino a tarda età. I sette anni aggiuntivi rispetto agli anni di fine carriera costano al proprio ateneo circa 120 mila euro all’anno, che per sette anni diventano 840 mila. Con questa cifra si potrebbero pagare 28 ricercatori per un anno o, se si preferisce, un ricercatore per 28 anni;
lo svecchiamento del sistema universitario e l’aumento dei giovani ricercatori, necessari per rimettere in moto l’università italiana, passano anche attraverso una revisione dell’età pensionabile che andrebbe riportata a 65 anni per i docenti oggi in servizio;
è altresì vero che nella massa dei 20 mila ordinari ci sono personalità di grande spessore scientifico e culturale, i quali costituiscono un patrimonio importante per la trasmissione del sapere. Ispirandosi al sistema anglosassone, per loro andrebbe prevista la costituzione della figura del «professore emerito». Un titolo da conferire unicamente ai professori meritevoli e di chiara fama che dopo il raggiungimento dell’età pensionabile desiderano continuare l’attività di insegnamento e di ricerca. Per evitare i soliti automatismi dell’università italiana, il titolo andrebbe riconosciuto solo su richiesta motivata e attribuito solo per alti meriti scientifici .
RICERCATORI SENZA “SANTI”
di Vincenza Lojacono dell’Università di Messina
Magari siamo rimasti tali perche non abbiamo “santi” in paradiso!
Perchè non si dà pubblicità alle schede compilate da parte degli studenti, che sono i più appropriati alla valutazione della qualità didattica dei singoli docenti?
ANCORA RICERCATORI DOPO 40 ANNI?
di Mario Ascheri dell’Università Roma 3
Il fallimento dell’università è tutto in quei ricercatori che arrivano ancora tali dopo 40 anni… E’ questo il punto da sottolineare! il resto sono miserie giuridiche, importanti ma miserie, colleghi miei!
m.a.