= AGGIORNAMENTO del 7.7.10. “Se passa questa riforma università ridotte come le Asl”: articolo del 6 luglio 2010 e lettera aperta.
Walter Tocci, deputato del PD ed ex responsabile dei DS per l’Università, in un suo recente intervento (“Quale riforma per l’Università”), sul sito del “Centro per la Riforma dello Stato”, sviluppa un’articolata analisi dell’Università italiana, delle cause che ne hanno determinato la crisi (“frutto di un quindicennio sbagliato”) e delle responsabilità accademiche, politiche, imprenditoriali e ‘giornalistiche’. Inoltre egli svolge una critica puntuale al DDL governativo e propone una sua soluzione per il rilancio dell’Istituzione.
Walter Tocci, tra l’altro, afferma:
“L’accademia si dimostra impotente a emendare i propri errori”.
“La politica” sembra non rendersi conto che la crisi dell’Università è una “diretta conseguenza delle sue decisioni legislative e finanziarie”.
“I media ripetono i soliti luoghi comuni”.
“Gli imprenditori (…) preferisco spendere per le squadre di calcio, certo non per la conoscenza”.
“Il disegno Gelmini ripete tutti gli errori del quindicennio portandoli all’esasperazione.”
Tocci inoltre sostiene che:
Esistono “le lobbies accademiche, da sempre abituate a operare sulla scala nazionale.”
“La retorica aziendalista (…) ha dominato le politiche sia di destra sia di sinistra.”
“Il consenso (del PD) maturato verso la proposta Gelmini” dipende anche dal “clima di rassegnazione generato dalla delusione dell’ultimo governo di centrosinistra.”
“Gli insuccessi della riforma didattica sono in gran parte imputabili alla pretesa di imporre centralmente un solo modello di organizzazione degli studi”.
Walter Tocci critica il DDL governativo scrivendo:
“Le procedure concorsuali vengono duplicate, svolgendosi sia a livello locale che nazionale, con un ulteriore appesantimento burocratico e di carico di lavoro sottratto alla ricerca e alla didattica. Ciascun concorso richiederà il doppio di commissioni e inevitabilmente il doppio di alleanze baronali, di contenziosi e di perdite di tempo.”
“A destra e a sinistra, molti si sono convinti che la panacea di tutti i mali consisterebbe nell’allargamento dei consigli di amministrazione degli atenei a RAPPRESENTANTI ESTERNI. La novità o è banale o è pericolosa, tutto dipende da chi li nomina. Proprio questo punto però è lasciato nel vago, nessuna delle tante norme del ddl se ne occupa. Se i membri esterni sono scelti dagli organi universitari allora è una cooptazione e non si vede come possa fare miracoli. Le nomine verranno presumibilmente regolate dal rettore, essendo l’unico soggetto capace di controllare contemporaneamente le dinamiche interne e i condizionamenti esterni all’ateneo. Il suo ruolo sarà ancora più rafforzato dalla concentrazione di tutti i poteri in capo al consiglio di amministrazione, a discapito di tutti gli altri organi universitari. Qui siamo al PARADOSSO, poiché proprio i RETTORI, indicati all’inizio dal ministro come i massimi responsabili dell’autoreferenzialità accademica, ottengono un forte aumento dei poteri reali e ciò probabilmente spiega il sostanziale appoggio offerto dalla Crui al ddl ministeriale. Se, invece, la nomina è affidata in forme più o meno surrettizie a decisori esterni allora si apre la porta alle correnti dei partiti e agli imprenditori che vivono di assistenza pubblica o che pretendono di guidare l’università senza spendere un soldo. Non bisogna andare lontano con la fantasia, basta pensare alla sanità, dove la lotta all’autoreferenzialità della classe medica ha costruito l’alibi per affidare la nomina dei primari alle correnti di partito e le scelte di investimento alle lobbies dei fornitori. Del baronismo universitario si conoscono tutti i difetti, ma certo non se esce mescolandoli con quelli della politica e dell’imprenditoria. Le università non stanno tanto bene, ma possono ancora peggiorare se diventano come le Asl.”
“Suona beffardo l’annuncio del contratto 3+3 (i nuovi RICERCATORI A TEMPO DETERMINATO, ndr) come novità assoluta. Come disse Puccini al giovane compositore che proponeva il suo spartito: “ciò che è nuovo non è bello e ciò che è bello non è nuovo”. Già le norme vigenti impongono una verifica dopo tre anni per confermare la nomina a professore associato (e anche a ricercatore e a professore ordinario, ndr). Questa valutazione è stata ridotta dalle consuetudini accademiche a un mero passaggio burocratico e quasi mai un professore è stato respinto alla verifica. Secondo un tipico meccanismo dell’ipertrofia legislativa si reitera una norma vigente nell’illusione di assicurarne in tal modo la cogenza, senza mai affrontare i processi reali che ne hanno vanificato l’attuazione. Ciò che è bello non è nuovo, appunto. Si dice inoltre che il contratto 3+3 assicurerà il ringiovanimento della docenza. Basta conoscere un po’ il mondo accademico per sapere che le cose si aggraveranno. Infatti, questo strumento contrattuale non sostituisce, ma si aggiunge all’esistente congerie di borse, assegni e altri rapporti di lavoro sui generis. Facendo una stima molto ottimistica, un giovane studioso che permanga 5-6 anni in queste figure contrattuali (quindi meno del tempo medio attuale), ipotizzando che abbia conseguito il dottorato in regola con gli studi intorno ai 28-29 anni, arriverà in cattedra dopo altri sei anni (Tocci dimentica i sei anni di assegno di studio, ndr) e quindi oltre i quarant’anni, cioè molto tardi secondo gli standard internazionali. Tutto ciò nella realtà potrà solo aggravarsi perché i posti disponibili di professore associato saranno ridotti dal contemporaneo assorbimento dei professori aggregati e in ogni caso dalle restrizioni finanziarie. Niente di nuovo sotto il sole, i proclami ministeriali passeranno, i giovani ricercatori aspetteranno. Ciò che è nuovo non è bello, appunto. Ci sarebbe, però, un modo semplice per risolvere il problema, rinunciando alla più granitica eccezionalità accademica, l’età di pensionamento. Anche in questo caso basta cancellare le norme speciali e adeguare l’università alla legislazione nazionale. Anzi, questa normalizzazione è stata già legiferata per i ricercatori, ma non per i professori. Invece, il PENSIONAMENTO A 65 ANNI del professore avrebbe tanti effetti positivi sul sistema.”
Walter Tocci esamina anche la ‘GRADUATORIA DEGLI ATENEI’ criticando il metodo adottato e sostenendo che “i meccanismi e i parametri contengono dieci impostazioni sbagliate o almeno controverse.”
== A una analisi e a una critica, che in larga misura sono quelle che l’ANDU ha sviluppato in questi anni, Walter Tocci fa seguire una sua proposta di riforma che le contraddice e che renderebbe ancora più gravi i mali che lui stesso individua, portando alla definitiva demolizione dell’Università statale, di massa e di qualità.
Tocci, che sembra quasi ritenere sbagliata la legislazione dell’ultimo quindicennio più per la sua quantità che per i suoi contenuti, è convinto che per sviluppare negli Atenei italiani la “concorrenza” e la “competizione” (nel suo vocabolario non c’è la parola ‘collaborazione’) occorra uscire dallo “statalismo novecentesco” e rendere l’Università “libera di organizzarsi come meglio crede e di assumere i professori a suo gradimento. Gli organi universitari diventano totalmente responsabili delle proprie azioni, senza alcuna rete di protezione. L’università è libera anche di sbagliare, ma ne paga le conseguenze fino alla possibilità estrema del fallimento. La valutazione dei risultati diventa l’UNICA REGOLA.”
Usando le parole di Tocci, basterebbe conoscere un po’ il mondo accademico per sapere che l’accademia italiana utilizzerebbe la totale libertà concessagli per fare di tutto e di più sul piano del nepotismo e dell’uso privatistico delle risorse pubbliche. Una devastazione annunciata che non sarebbe certo evitata dalla minaccia di essere puniti sulla base di una “valutazione” tutta da definire (organo, compiti, modalità) e i cui risultati non potranno che aversi dopo diversi anni dai misfatti commessi, sapendo che comunque le eventuali sanzioni riguarderanno le strutture, non certo i singoli ‘colpevoli’. L’Organo nazionale di valutazione, una sorta di angelo vendicatore, CERTAMENTE cadrebbe sotto il controllo (se non direttamente gestito) di quelle “lobbies accademiche, da sempre abituate a operare sulla scala nazionale”, di cui scrive lo stesso Tocci: i componenti di questo Organo non verrebbero da Marte, ma anche se così fosse l’Accademia italiana che conta sarebbe in grado di ‘umanizzarli’, adattandoli alle proprie esigenze.
Walter Tocci nel prevedere l’assoluta autonomia per gli Atenei non si preoccupa di precisare CHI sarebbero negli Atenei inizialmente i ‘padroni’ di questa autonomia. Già con la finta autonomia concessa nel 1990 dal ministro Ruberti, ci si preoccupò di assicuare la continuità dell’assetto oligarchico della gestione degli Atenei (rettore-padrone e SA dei Presidi), affidando di fatto ai SA (al Rettore e ai Presidi) le modifiche statutarie e imponendo la presenza egemonica dei Presidi anche nei ‘nuovi’ SA (per Ruberti le Facoltà erano intoccabili). Ora il DDL governativo si preoccupa di assicurare la continuità della gestione oligarchica, affidando le modifiche statutarie ad un Organo nominato dagli attuali Organismi ‘controllati’ dai Rettori (SA e CdA). E Tocci?
Alle ipotesi antidemocratiche di organizzazione degli Atenei sostenute da Confindustra, PDL, PD e CRUI e alle devastanti ipotesi di totale autonomia degl Atenei ‘corretta’ da una Agenzia nazionale padrona assoluta dell’Università italiana , l’ANDU da anni contrappone un modello di organizzazione democratica, responsabile, efficace ed efficiente (v. in calce a questo documento).
La verità è che Walter Tocci (e non solo) da anni vuole di fatto il COMMISSARIAMENTO (altro che autonomia!) dell’Università italiana e in questa direzione, all’inizio del 2006, ha presentato alla Camera (Luciano Modica al Senato) un disegno di legge sull’Agenzia nazionale di valutazione che l’ANDU ha criticato già al Forum di presentazione a Milano e anche successivamente con un documento. Insomma, la ‘riforma’ di Tocci si tradurrebbe certamente nella costituzione una ‘grande’ Asl nazionale dell’insieme degli Atenei!
Ed è tanta la sua voglia di istituire una ‘forte’ Agenzia di valutazione, che Walter Tocci si è ritrovato a dare un significativo contributo alla caotica produzione di norme sull’Università, presentando un improvvisato e assurdo emendamento che affida alla ancora non esistente ANVUR la valutazione per la conferma dei ricercatori universitari. La norma, sostenuta dall’allora sottosegretario Modica e poi ‘smentita’ dall’allora ministro Mussi, è stata approvata ed è ancora formalmente in vigore.
In particolare sui CONCORSI, Walter Tocci si chiede: “Che altro deve succedere per prendere atto dell’inutilità delle leggi sui concorsi? Se ne sono viste tante e diverse, sempre accompagnate da annunci mirabolanti, eppure tutte fallimentari. Ancora c’è qualcuno in Italia che pensa di aver trovato una brillante soluzione per i concorsi? Si dice che è un obbligo costituzionale, ma questo sarebbe soddisfatto da un semplice avviso pubblico, magari da diffondere nelle riviste internazionali, e dalla garanzia di trasparenza delle procedure. La delegificazione avrebbe un forte impatto chiarificatore. Il re sarebbe nudo. Togliendo all’accademia l’orsacchiotto di pezza dei concorsi si costringerebbero tutti i decisori a valutare le conseguenze delle proprie azioni, soprattutto se fosse certo l’impatto sui finanziamenti. Se le regole della valutazione funzionano bene assumere un professore incapace significa perdere posizioni nel ranking della produzione scientifica dell’ateneo. La cultura del merito non s’impone con gli editti, cresce solo nella responsabilità. La bontà di una legge consiste nel lasciare libero un ateneo anche di farsi del male, purché esistano strumenti che facciano poi pagare le conseguenze.”
Insomma, secondo, Tocci, quella stessa accademia che egli ritiene “incapace di emendare i propri errori”, commessi in ‘regime’ di vastissima autonomia finanziaria, statutaria, concorsuale e didattica sarebbe COSTRETTA a redimersi se gli si dà totale autonomia (“senza alcuna rete di protezione”) ed introducendo la valutazione a valle delle scelte fatte, facendo “POI pagare le conseguenze” all’Ateneo che si è “fatto del male”.
Sui concorsi Walter Tocci sembra non sapere che le leggi sono state fatte volutamente per lasciare liberi i singoli ‘maestri’ di scegliere personalmente chi reclutare e chi e quando fare avanzare nella carriera. E proprio sulla riforma Berlinguer, che nel 1998 ha introdotto i finti concorsi locali, l’ANDU aveva anticipato le conseguenze di quella che i ‘grandi’ opinionisti accademici (sempre gli stessi) spacciarono allora come la fine della “mafia dei concorsi” nazionali.
Tocci sostiene che di norme sui concorsi “se ne sono viste tante e diverse” e si chiede se “ancora c’è qualcuno in Italia che pensa di aver trovato una brillante soluzione per i concorsi?”
Chiunque conosca le normative sui concorsi universitari sa che in realtà MAI è stata adottata la riforma che l’ANDU propone da anni. Ecco qui riproposta la “brillante soluzione per i concorsi” dell’ANDU:
Proposta dell’ANDU su docenza e concorsi
Premessa
Solo con la riforma proposta dall’ANDU si può porre veramente e immediatamente fine al precariato e al nepotismo accademico, consentendo finalmente ai docenti di qualsiasi livello di svolgere più liberamente, più proficuamente e più serenamente l’attività di ricerca e di insegnamento. Si sottolinea inoltre che l’introduzione dei concorsi nazionali per l’ingresso nella fascia iniziale della docenza (dal 1980 il ruolo dei ricercatori) rappresenterebbe una novità ASSOLUTA per l’Università italiana: per la prima volta ci sarebbero concorsi veramente nazionali, TOTALMENTE sganciati dal ‘maestro’ che ha ‘allevato’ il suo allievo e che ritiene di avere il diritto-dovere di farlo entrare in ruolo e di fargli fare carriera. In questa direzione si potrebbe anche prevedere una graduatoria dei vincitori dei concorsi nazionali per il reclutamento, facendo scegliere ai vincitori stessi, seguendo l’ordine della graduatoria, la sede tra quelle che hanno bandito o hanno avuto assegnati i posti.
LA PROPOSTA
Stato giuridico nazionale dei docenti collocati in un ruolo unico, articolato in tre fasce con uguali mansioni. Ingresso (v. specificazioni sotto) nel ruolo docente per concorso nazionale (prevalentemente nella terza fascia) e passaggio di fascia per idoneità nazionale individuale (a numero aperto), con immediato e pieno riconoscimento della nuova qualifica, senza l’ulteriore chiamata della Facoltà dove il docente già lavora e continuerà a lavorare.
Per il passaggio di fascia e’ indispensabile prevedere uno specifico budget nazionale per i connessi incrementi stipendiali.
Le commissioni nazionali, per i concorsi e per i passaggi, devono essere interamente sorteggiate e composte da soli ordinari.
Periodo pre-ruolo massimo di 3 anni in un’unica figura definita da una legge che preveda adeguata retribuzione, diritti (malattia, maternità, ferie, contributi pensionistici) e libertà di ricerca, con un numero di posti rapportato a quello degli sbocchi nel ruolo della docenza.
Bando nei prossimi anni, su nuovi specifici e aggiuntivi fondi statali, di almeno 20.000 posti di terza fascia, con cancellazione dell’attuale giungla di figure precarie.
Trasformazione del ruolo dei ricercatori in terza fascia di professore, prevedendo la partecipazione di tutti ai Consigli di Facoltà e l’accesso ai fondi di ricerca anche per i professori di terza fascia non confermati.
Distinzione tra tempo pieno e tempo definito con esclusione per docenti a tempo definito dalle cariche accademiche e dalle commissioni concorsuali.
– Specificazioni sul reclutamento.
I concorsi per i posti nella fascia iniziale della docenza (oggi il ruolo dei ricercatori) devono essere espletati a livello nazionale, ‘concentrando’, con cadenza certa, i posti banditi in autonomia dai vari Atenei su fondi propri e/o ministeriali.
La scelta dei vincitori deve essere fatta da una commissione nazionale composta solo da ordinari direttamente sorteggiati, escludendo quelli degli Atenei che hanno bandito i posti e prevedendo non più di un componente appartenente a una stessa sede.
Ai candidati devono essere adeguatamente riconosciuti i periodi di attività didattica e scientifica svolti a qualsiasi titolo: dottorato, assegni, borse, incarichi, ecc.
CONCORSI NAZIONALI CON IL 50% DI STRANIERI
di Patrizio Dimitri dell’Università di Roma “La Sapienza”
Una “pulizia etica” per i concorsi.
Cari colleghi, condivido l’analisi di Walter Tocci e sarei idealmente anche d’accordo con la soluzione della chiamata diretta, ma considerando lo stato attuale e i rapporti di forza presenti all’interno dei nostri atenei, la trovo purtroppo impraticabile. Infatti, una tale soluzione in questo momento favorirebbe ancora di più le logiche clientelari e nepotistiche che già la fanno da padrone. La chiamata diretta fallirebbe come sono falliti tutti gli altri meccanismi concorsuali sperimentati finora, generando le stesse aberrazioni che vengono denunciate oggi. D’altronde, anche la proposta fatta dall’ANDU sui concorsi temo non avrebbe miglior fortuna. Infatti, non credo che per far girare il vento bastino le commissioni nazionali interamente sorteggiate e composte da soli ordinari, e nemmeno che da quelle commissioni siano esclusi i docenti dell’Ateneo che bandisce il posto. Sappiamo bene che le reti di accademiche sono vaste e potenti e capaci di funzionare in modo trasversale.
Vista la situazione è lecito pensare che il fallimento di tutti i meccanismi concorsuali messi in pratica fino ad oggi sia dipeso non tanto dai meccanismi stessi, quanto da chi li ha sempre gestiti, ovvero quella elite di professori ordinari appartenente ai vari settori disciplinari e facente capo a gruppi e gruppuscoli accademici di potere. Come possiamo pensare che qualcosa cambi se i gestori saranno sempre i medesimi?
Che fare, allora? Per tentare una bonifica del sistema, i concorsi dovrebbero essere nazionali, come sostiene l’ANDU, ma a mio parere le commissioni dovrebbero prevedere una massiccia presenza di esperti stranieri (almeno il 50%), non perchè più bravi o più belli, ma solo in quanto garanti il più possibile indipendenti e svincolati dalle lobbies politico-accademiche di casa nostra. Qualcosa di simile dovrebbe valere anche per la valutazione dei progetti di ricerca.
Un decennio di tale pratica potrebbe produrre una discreta “pulizia etica” e favorire lo sviluppo di una nuova generazione accademica in media eticamente e professionalmente migliore della precedente. A quel punto si dovrebbe passare a una fase successiva basata su chiamata diretta dei candidati da parte degli Atenei e sulla loro valutazione, con finanziamenti in funzione dei risultati.
LA VITA IMPOSSIBILE DEL PRECARIO
di Marianna Signorastri (fuori dall’Università)
Risposta a GIOVANE RICERCATORE ‘MOBILE’ SE BEN RETRIBUITO
Colgo lo spunto di Davide Silvestri che, essendo un giovane, secondo me ha centrato in pieno il problema, per cercare di porvi un problema che ritengo grave e non marginale nelle Università italiane.
Personalmente ho concluso il dottorato e mi sono immediatamente resa conto che la carriera universitaria, oggi, è per chi è ricco di famiglia ed è disposto a farsi mantenere da papà, oppure per chi non vuole costruirsi un futuro.
Difficilmente, infatti, la voglia di costruirsi una vita normale (matrimonio, famiglia, casa..) si concilia con il lavoro estremamente precario che l’università offre.
Mi è inoltre capitato il terribile episodio di conoscere una brillante ricercatrice, che ha lavorato per anni con brevi contratti di ricerca. Successivamente ha svolto il dottorato di ricerca e, quando si è resa conto che, finiti i fondi della borsa, sarebbe dovuta tornare alla vita di rinunce e insicurezze precedente non ha retto e si è suicidata.
Mi si è posta quindi una scelta: continuare a cercare di entrare in università o orientarmi verso altre scelte?
Ho rinunciato alla carriera universitaria. Ho partecipato ad un concorso presso un ente locale e l’ho vinto: oggi ho uno stipendio che mi ha permesso di avere un figlio, di accedere ad un mutuo per acquistare la casa, ecc…
Nonostante avessi rinunciato all’università come attività principale, alcuni docenti hanno continuato a offrirmi collaborazioni in attività di ricerca, o contratti di docenza praticamente non retribuiti. Per me la ricerca è diventato un hobby, ma come talo gli dedico il tempo che si può dedicare alla palestra, alla musica,… Oggi ho quasi esaurito lo slancio e la pazienza. Ho solo un rimpianto: sono certa che avrei potuto svolgere le attività di ricerca meglio di colleghi che conosco, i quali hanno continuato a “bazzicare in università”, anche senza retribuzione alcuna, perchè non sono in grado di fare altro. Sicuramente fra i precari molti sono preparatissimi e meritano di diventare professori, molti altri putroppo diventeranno ricercatori a quaranta/cinquantanni solo perchè hanno avuto costanza!!!
CONCORSO, STRUMENTO PEGGIORE
di Antonino Graziano dell’Università di Catania
Credo che il concorso, in sé, sia il peggiore degli strumenti possibili per reclutare docenti universitari. L’idea stessa che il concorso debba vincerlo il candidato scientificamente migliore,
apparentemente ineccepibile, è sbagliata. In realtà, ogni università, facoltà, dipartimento, corso di laurea, ha proprie e differenziate esigenze: ci può essere chi ha bisogno del giovane dinamico e organizzatore, chi della celebrità internazionale, chi del caposcuola, chi del ricercatore puro, chi del facilitatore dei rapporti con l’esterno; e pure chi ha bisogno di rispondere alle attese di crescita professionale delle proprie risorse interne, come accade in ogni sana organizzazione, anche in senzo, più meritocratica. L’importante è che costui sia idoneo, invece che sia il migliore – sotto il profilo scientifico – esistente sul pianeta Terra.
In sostanza, il meccanismo debba essere quello della chiamata libera nell’ambito di una rosa di idonei stilata dalla comunità scientifica. Questa rosa dovrebbe essere espressione
della serietà e qualificazione della comunità scientifica.
DAL 1995 CONCORSI PER COOPTAZIONE PERSONALE
di Antonino Graziano dell’Università di Catania
NELLE VALUTAZIONI COMPARATIVE 1999-2005
Mi sembrano però necessarie integrazioni. Anzitutto la gestione spregiudicata o addirittura cinica di taluni commissari o grandi elettori è un male risalente negli anni frutto di una
scelta imposta dal legislatore, incurante delle finalità scientifiche dell’università e volutamente disattento alla istanza di una corretta etica. La stessa disciplina dei concorsi attualmente in vigore è stata escogitata in chiave di garanzia della carriera di coloro che erano già dentro all’Università, per permettere ai ricercatori di divenire associati e agli associati di divenire ordinari: basti pensare alla nomina del commissario interno, a protezione del figlio prediletto della Facoltà; alla previsione di due e, poi, una idoneità aggiuntive, quale merce di scambio; alla possibilità data alla Facoltà banditrice di non chiamare nessun vincitore. E se si guarda al bilancio di questi primi sette anni, certo la ratio della riforma è stata pienamente rispettata, perché in larghissima percentuale i concorsi si sono limitati a favorire carriere interne, facendo saltare qualsiasi ricambio e mobilità, sicché, oggi, chi è dentro è dentro ed è dentro sempre nella stessa sede universitaria, dalla laurea al collocamento a riposo. Finiamo con questi scandalismi di facile maniera giudichiamo le persone sulla base del loro passato;
rimbocchiamoci le maniche, chiedendo al legislatore una riforma più coraggiosa in senso meritocratico: se si volge lo squardo a ciò che è stato allora la proposta è veramente brillante…..
GRAZIANO, MA CHE PROPOSTA BRILLANTE!
di Gianfranco Denti dell’Università di Pisa
Graziano, l’epurazione dei cinquantacinquenni mi sembra una proposta eccezionalmente brillante!… Sono curioso di sapere quali, secondo lei, potrebbero essere le istituzioni di elezione cui assegnare gli epurati, perché possano svolgere ancora un’attività nell’interesse del Paese. Personalmente immagino che aziende di sevizi a partecipazione pubblica (auto-filo-tramviarie, di nettezza urbana, di illuminazione stradale, di servizi idrici e fognanti, ecc.) sarebbero le più valide. E’ comunque del tutto opportuno che a una “certa età” (ma anche ad un’età certa; meglio, forse, 50 anni) si rinnovino obbligatoriamente le prospettive lavorative dei docenti universitari, anche per farli godere di una rinnovata libertà (com’è stato autorevolmente scritto, il lavoro rende liberi).
Grazie, Graziano, la Nazione ha bisogno di idee nuove! Aspettiamo di vedere se il Ministro Gelmini ne saprà comprendere e valutare l’enorme potenziale riformatore…
ASSUMERE CHI SI VUOLE
di Antonino Graziano dell’Università di Catania
La soluzione di concorsi esiste da lungo tempo
a) l’università libera di assumere chi vuole
B) valutazione operato triennale con quantificazione economica scientifica e didattica prodotta
c) permanenza nel ruolo unico docente fino a 55 anni poi il passaggio ad altra istituzione obbligatoria
d)Permanenza nel ruolo docente fino a 65 anni per alti meriti scientifici
e)In presenza di valutazione triennale negativa passaggio obbligatorio immediato ad altra amministrazione
f) assunzione nelle università nel rispetto dei parametri stabiliti dal ministero e CUN ogni 2 anni.
CONCORSI: NON HO UNA SOLUZIONE
di Alberto Mioni dell’Università di Padova
Sono sufficientemente anziano da aver provato vari sistemi concorsuali. La mia esperienza mi dice che nessuno dei sistemi è perfetto se vi sono dei commissari condizionati dai propri impegni di bottega o di indirizzo di ricerca nel loro SSD.
Ho visto anche concorsi in cui i commissari erano sorteggiati: chi aveva avuto la fortuna di entrare in commissione aveva la tentazione di sistemare i suoi allievi o gli allievi del collega amico anche se immaturi, dato che non aveva la certezza di poter essere nuovamente sorteggiato quando i suoi protetti fossero effettivamente maturi e meritevoli. Quanto alle successive chiamate nelle Facoltà, sappiamo come esse possano creare obblighi di gratitudine e legami mafiosi. Il pericolo è che le sedi meno appetite e meno attrezzate per la ricerca tocchino in sorte ad ottimi candidati freelance o che tentano di tornare in Italia dopo un fruttuoso curriculum all’estero.
Anche il sistema dei concorsi in loco che ha regolato per molti anni lo sviluppo della docenza ha portato a risultati spesso immondi: per di potere ternare qualcuno che interessa al commissario, si ‘pagava pegno’ alla sede che aveva bandito promuovendo candidati locali che non avrebbero alcuna chance in un concorso nazionale. Ma, anche qui c’è un ma: questo sistema ha permesso di colmare i vuoti delle università minori promuovendo dei cultori locali di non alto valore, ma che comunque assicuravano presenza e continuità alla didattica, invece che offrire un’ondata di ‘esportati’ dalle sedi maggiori che restano nella sede di chiamata per pochi anni, in attesa di ritornare … in patria.
Non ho una soluzione, ma penso che le consultazioni nell’ambito delle associazioni scientifiche dei vari gruppi di discipline, dove esse abbiano operato in base a principi oggettivi nell’esprimere criteri di scelta e nel proporre delle liste di papabili, abbiano potuto metter un po’ d’ordine in materia. Anche qui c’è però il pericolo che il bravo studioso isolato non noto alla corporazione non venga preso in considerazione. Soprattutto nelle materie umanistiche un salto di qualità può venir dato dalla pubblicazione di un libro di buon respiro, che avviene spesso a ridosso dei concorsi e che quindi non mette in lizza certi candidati potenzialmente di prim’ordine, ma che – senza un’opera di ampio respiro – non possano essere ritenuto all’altezza prima dell’uscita di tale opera.
IN RUOLO PRESTO, RICERCATORI TERZA FASCIA
di Gianfranco Denti dell’Università di Pisa
Sono assolutamente d’accordo con Davide Silvestri circa la necessità di prevedere importi degli assegni post-doc che siano almeno nella media di quelli dei paesi più evoluti.
Quello che invece mi pare che Silvestri non abbia colto è che dovrebbe essere l’inserimento stabile (di ruolo) a potersi realizzare solo in sede diversa da quella di formazione. E, aggiungo ora, non dopo tre lustri di lavoro precario, sottopagato ed eterodiretto (spesso puramente esecutivo). E non con stipendi indecorosi come quelli iniziali degli attuali ricercatori di ruolo (qualifica che non solo non andrebbe abolita, ma rilanciata e potenziata come terza fascia della docenza, checché ne dicano i soliti “opinion makers parauniversitari trasversali”…).
GIOVANE RICERCATORE ‘MOBILE’ SE BEN RETRIBUITO
di Davide Silvestri dell’Università di Pisa
Mi trovo in linea con quanto asserito da Achille Giacometti, ma provo a intervenire in merito al post di Gianfranco Denti. Ritengo nello specifico che l’idea di base della “mobilità” del giovane ricercatore sia scientificamente e culturalmente interessante, sia perché il contatto/interfaccia con ambienti ed esperienze differenti sarebbe sicuramente stimolante e formativo, sia perché (forse) diminuirebbe il nepotismo, in quanto si andrebbe a recidere il pericoloso (spesso) rapporto giovane ricercatore pre-concorso / professore ordinario. Ricordo che purtroppo il nepotismo nel sistema odierno non è solo una prassi, ma dal pdv del giovane è una necessità, costretto altrimenti a presentarsi ai concorsi “senza elmetto”.
Mi permetto però di fare un’osservazione dal mio pdv di giovane ricercatore pre-concorso (assegnista): mi sembra che quello che viene presentato/paventato sia un mondo ideale, in cui io sarei libero di girare per i centri di ricerca nazionali e internazionali per 6-8 anni, accrescendo il mio bagaglio di competenze ed esperienze, da mettere poi a disposizione di un Ateneo che creda nelle mie capacità e nelle idee (di ricerca) che intendo portare avanti; poi c’è il mondo reale, in cui ci sono le bollette da pagare, gli affitti, le spese di viaggio, la fidanzata/compagna/moglie che magari non può seguirti nel tuo girovagare. Qualcuno di voi mi dirà: “beh…molti in molte professioni lo fanno”, e io mi permetto di rispondere “ok, anche io sarei disposto, ma datemi uno stipendio idoneo, che mi garantisca di girare per alcuni anni per la crescita professionale/culturale facendo anche sacrifici personali/relazionali, ma non dimentichiamoci che tutto questo deve avere un ritorno economico adeguato”.
Molti giovani motivati oggi vanno ad esempio all’estero, ma ricordiamoci che fuori dalle Università con una laurea in Ingegneria (come la mia) questi giovani guadagnano 10 volte quello che percepisco io come assegnista. Dopo i 6-8 anni, con i guadagni fatti, comprano casa e fondano famiglia ….. qui quello che ci si prospetta è di diventare ricercatori altamente professionalizzati e formati, ….ma senza fissa dimora, single e con 900 € di stipendio al mese.
Il mio intervento non vuole essere polemico con nessuno, ha solo lo scopo di richiamare alla mente di tutti le difficoltà economiche in cui versa un giovane che decida di intraprendere la carriera universitaria, difficoltà che poi si riflettono su tutti gli aspetti della vita privata. Quindi ben venga la mobilità, che condivido, ma retribuita ad hoc, come retribuito ad hoc deve essere il posto di ricercatore. Una vera riforma …… che voglia mirare alla selezione dei “migliori” deve partire da questo.
RECLUTAMENTO. LA PROPOSTA ANDREBBE BENISSIMO SE …
di Gianfranco Denti dell’Università di Pisa
Sul reclutamento.
La proposta Tocci andrebbe benissimo solo se si stabilisse per legge ciò che è prassi in molti sistemi universitari stranieri, e cioè “l’obbligo di mobilità iniziale”. In altri termini, non dovrebbe essere possibile assumere nel ruolo di ingresso chi abbia fatto il dottorato di ricerca (o la specializzazione medica) – titolo da rendere obbligatorio – nella sede universitaria che opera la selezione. Inoltre, come pure avviene altrove, i candidati al posto dovrebbero presentare un autonomo programma di ricerca, che la sede dovrebbe impegnarsi a sostenere per almeno un triennio con apposite risorse.
Questo avrebbe come positive conseguenze che:
a) si metterebbero in circolazione le persone meglio formate, con beneficio dell’intero sistema universitario, anche in termini di emulazione dei migliori percorsi formativi;
b) si eviterebbe che fossero reclutati meri esecutori, portaborse e “alzatori di mani” (o peggio), ad esclusivo vantaggio “produttivo” e/o di potere del reclutatore;
c) la sede che recluta ne avrebbe chiaro fino in fondo il perché (turn-over, rafforzamento scientifico e didattico di un settore, apertura di un nuovo settore, ecc.), che oggi spesso è chiaro solo a chi “dispone del posto”;
d) si assumerebbero persone autonome, motivate all’innovazione e al cambiamento, che si cimenterebbero con un nuovo ambiente attraverso il proprio ingegno e il proprio impegno, non solo per l’impossibilità di farsi proteggere dal “maestro”, ma soprattutto per l’esaltante soddisfazione di poter mettere a frutto la propria libertà (finalmente garantita non solo sulla carta, sia pure costituzionale …).
Quanto alle “punizioni” basate sul definanziamento, perché funzionassero efficacemente ed equamente, specie a breve-medio termine (cioè nella fase di riposizionamento del sistema), bisognerebbe che fossero irrogate in seguito a valutazioni estremamente sofisticate e comunque indipendenti dal ministero. Altrimenti molte sedi rischierebbero avvitamenti negativi in gran parte dovuti a cattivi comportamenti risalenti fino a tre o quattro lustri fa, con scarsa incidenza degli sforzi di cambiamento in corso. Non dimentichiamo, infine, gli effetti sugli studenti: in un sistema cronicamente sottofinanziato ed in cui la mobilità studentesca è molto limitata – per tutte le ragioni infrastrutturali ed economiche che sappiamo – la riduzione delle risorse di una sede si traduce necessariamente e progressivamente in minori e peggiori servizi didattici, a tutto danno degli incolpevoli destinatari e senza che questi possano rimediare. (Se un ospedale funziona male, non ha senso metterlo in condizioni di funzionare peggio: o lo si risana subito o lo si chiude, senza aspettare che abbia prodotto generazioni di morti per malasanità…).
E’ chiaro che questi effetti andrebbero evitati, ma come?
Cordialità.
Gianfranco Denti
Università di Pisa
TOCCI: ANALISI BUONA, PROPOSTA DEBOLE
di Rosario Nicoletti
Condivido largamente l’analisi di Walter Tocci, la trovo straordinariamente penetrante ed utile. Trovo di contro molto debole la parte propositiva: tutti quelli che insistono sulla responsabilità di coloro che compiono le scelte – ad esempio nel reclutamento – dicono una ovvietà. Il problema nasce quando si vuole dare efficacia alla “responsabilizzazione”. Sono d’accordo con Nicosia sulla inefficienza delle “punizioni”: solo chi ha in mano i cordoni della borsa può irrogare punizioni in tempi utili. Tutto ciò esiste nelle università USA (ad esempio), nelle quali il CdA non è una emanazione del corpo docente.
PENSIONAMENTO A 65 ANNI
di Mauro Degli Esposti
A me invece sembra che l’analisi di Walter Tocci sia profonda e stimolante. Trovo particolarmente valida la proposta di pensionamento a 65 anni, optional con research fellowship (citata in parte anche nel testo riportato nel post qui sopra). Non e’ nuova come idea, come ho riassunto nella webpage allegata – ma e’ spiegata in modo elegante e chiaro. Forse molti aderenti all’ANDU saranno contrari, ma mi piacerebbe proprio sentire le argomentazioni al riguardo. Con la situazione dei tagli (circa 933 milioni id euro nel 2010) che si prospetta sulle universita’!
http://rpc264.cs.man.ac.uk/VIA/index.php/Talk:Legge_dei_3_ricercatori
NO AI TONI ECCESSIVI
di Eugenio Muller dell’Università di Milano
A mio parere, molte delle osservazioni di Tocci sono largamente condivisibili e lo stesso si può dire di alcune proposte dell’ANDU.
Quello che mi sembra, invece, non condivisibile e fortemente sopra le righe, sono i toni eccessivamente amplificati, sino a divenire ringhiosi, quando non si è d’accordo con quanto propone l’altro (vedi proposta Tocci sull’autonomia degli Atenei).
Propongo a questo proposito un raffreddamento dei toni e un robusto tentativo per discutere pacatamente (e se possibile attenuare) le opinioni contrastanti. Essere così fortemente in contrasto fa solo il “gioco” di chi non ha a cuore l’Università
CHI SBAGLIA PAGA: MALPENSA, CIRIO, PARMALAT, ALITALIA
di Salvatore Nicosia dell’Università di Palermo
In verità il concetto del “Meglio la chiamata diretta e locale del candidato; chi sbaglia paga” è sistematicamente applicato nel Campionato di calcio, nel Campionato di Formula 1 ecc., dove un Direttore Tecnico o un atleta possono essere dei Padreterni ancora un certo venerdì sera, e dei disoccupati il lunedì successivo.
Questo sistema è già concettualmente sbagliato, e produce danni a sufficienza, nello sport: perchè le cause di una sconfitta possono stare AL CONTORNO di quel D.T., corridore o squadra, e il ricorso al processo sommario genera solo isterismi a catena.
Nell’Università l’errore eventualmente fatto nell’assumere un certo ricercatore o un certo prof non si rivela neppure subito – e in modo riconoscibile – come una sconfitta in campo.
Occorrono anni perchè si possa affermare che un ricercatore mediocre, o un presuntuoso, o uno che non si sa esprimere, assunti dal prof. Tale in data X, hanno prodotto insuccessi per un intero Dipartimento. E anche se succede, di corresponsabili ce ne saranno tanti.
Per chi ha letto “Il nostro agente all’Avana” di Greene non c’è altro da aggiungere…
Il “sistema Giacometti” (detto per abbreviare) non è applicato neppure nell’Industria, quanto meno non in quella italiana che pure si è costituita Pubblico Ministero e Giudice insieme dell’Università.
Per le storie a non lieto fine chiamate Malpensa, Cirio o Parmalat, quali dirigenti industriali “non hanno visto più un euro”? Per la svendita dell’Alitalia, quale Ministro o Presidente si è dimesso?
Salvatore Nicosia
Trovo la lettura del testo di Tocci illuminante e sono interamente daccordo con il commento dell’amico Achille.
Cari saluti,
Nicola Manini
OGNUNO PRENDA CHI GLI PARE MA …
di Achille Giacometti dell’Università di Venezia
Cari colleghi dell’ANDU,
la maggior parte delle volte condivido le vostre analisi, ma credo che sui concorsi vi sbagliate di grosso. Quello che dice Tocci, e cioè che l’unica strada è quella di una responsabilizzazione di chi prende le decisioni, è sacrosanto e stupisce la vostra critica sul fatto che “basterebbe conoscere un po’ il mondo accademico per sapere che l’accademia italiana utilizzerebbe la totale libertà concessagli per fare di tutto e di più sul piano del nepotismo e dell’uso privatistico delle risorse pubbliche”. L’idea è appunto esattamente il contrario: ognuno prende chi gli pare ma se sbaglia non vede più un euro! Che poi è più o meno quello che succede in tutti i paesi civili del mondo. Chi assumerebbe allora un imbecille se questo gli si ritorcesse contro?
Dire che siccome in Italia la mentalità è marcia (e in India o in altri paesi allora?) non si possano usare le regole valide dappertutto non mi sembra un buon contributo alla discussione.
Caso mai andrebbe chiesto a Tocci (o meglio ai suoi colleghi di partito) come mai non l’abbiano fatto loro quando ne avevano la possibilità, invece che dircelo adesso!
Cari saluti.
Achille Giacometti