Come i privati e in mano ai privati
La riforma Gelmini contro l’università pubblica*
di Alessandro Somma
L’anno scorso una legge ha accordato agli atenei la facoltà di trasformarsi in fondazioni private, in quanto tali governate da un consiglio di amministrazione entro cui personalità esterne all’università possono detenere la maggioranza assoluta (L. 133/2008). Finora nessun ateneo ha fatto uso di questa facoltà, e tuttavia molti hanno iniziato o rafforzato un percorso destinato a sfociare nella direzione indicata dalla legge: la privatizzazione dell’università o comunque il definitivo snaturamento del suo carattere pubblico, al di là delle formule tecniche di volta in volta utilizzate. Molti atenei hanno infatti ridimensionato i pur ristretti spazi di democrazia interna, adottando modelli di governo sempre più simili a quelli di un’impresa (non a caso indicati con un’espressione diffusa nel lessico societario: governance). Si è inoltre delineata la tendenza a coinvolgere i privati nelle decisioni strategiche, siano essi mecenati o clienti interessati a ottenere servizi dall’ateneo.
Un disegno di legge intende consolidare queste tendenze, imponendo alle università statali un assetto di governo del tutto simile a quello previsto per le università trasformatesi in fondazioni private (DDL 28/10/2009). Assimilabili nella sostanza sono anche una recente proposta di legge del Piddì, nonché le posizioni espresse negli ultimi tempi dalla Conferenza dei rettori (Crui).
La privatizzazione prima della privatizzazione. – Lo sviluppo di schemi di governo dell’ateneo sempre più simili a quelli di un’impresa ha innanzi tutto ispirato una prassi relativa al ruolo del Consiglio di amministrazione (Cda) e del Senato accademico (Senato) nel processo decisionale dell’ateneo. Gli statuti delle università indicano il Senato come l’organo di governo dell’università, in quanto tale chiamato a indicare al Cda linee di orientamento per la spesa. In molti atenei accade tuttavia che prima siano deliberate le spese dal Cda e solo in seconda battuta votate le relative scelte dal Senato, trasformando così un atto che formalmente attiene all’individuazione delle compatibilità economiche in un atto politico dirimente.
Alle prassi hanno fatto seguito le riforme statutarie, in particolare quella voluta dall’Università di Camerino, in sorprendente sintonia con quanto stabilito dal DDL Gelmini. Lo Statuto in vigore dal 16 aprile 2009 stabilisce infatti che il Cda è il principale organo di governo dell’ateneo, competente fra l’altro a deliberare sull’attivazione o disattivazione delle strutture didattiche e di ricerca, sul fabbisogno di “risorse strumentali e umane”, quindi a valutare la coerenza rispetto a queste delibere del Manifesto degli studi e delle chiamate di docenti e ricercatori. Il tutto coinvolgendo anche i privati, presenti nel Cda nella misura di tre su dieci (art. 19).
A ben vedere il coinvolgimento diretto dei privati nei Cda non è un fatto nuovo: gli statuti di molti atenei già la prevedono, anche se solitamente la limitano a chi contribuisce in modo rilevante e a fondo perduto al sostentamento finanziario dell’ateneo. Peraltro, come è noto, il mecenatismo è una pratica tutt’altro che diffusa nella realtà italiana, motivo per cui si è da tempo voluto incentivare una partecipazione dei privati in quanto imprenditori, ovvero in quanto interessati a ricevere servizi dall’ateneo e dalle sue strutture didattiche e di ricerca.
Di questo aspetto si è occupato un provvedimento del governo Amato II, relativo alla costituzione da parte delle università di fondazioni private, incaricate di gestire la didattica di eccellenza e la ricerca di eccellenza (DPR 254/2001). Ebbene, queste fondazioni possono anche essere controllate da privati, sono cioè dirette da un Cda nel quale la maggioranza assoluta dei componenti viene designata dagli enti di riferimento (art. 9). Sarebbero così i privati a condizionare le attività accademiche ritenute più redditizie, senza neppure avere l’onere di occuparsi di quelle non ritenute tali (art. 3).
Al momento molte università sono dotate di fondazioni universitarie, che al momento non sembrano rappresentare una reale minaccia per il carattere pubblico dell’università. E tuttavia la legge lo consente, è un’arma puntata contro l’università, magari pronta all’uso nel caso non si approvi il DDL 28/20/2009.
Un rettore padrone e un consiglio di amministrazione controllato dai privati. – E’ questo il clima in cui ha preso forma il DDL 28/10/2009, che si occupa fra l’altro di organizzazione del sistema universitario, improntandola al principio di gerarchia e di aderenza alle aspettative del mercato: il potere decisionale è concentrato nelle mani di un Rettore padrone e di un Cda controllato dai privati.
Spettano infatti al Cda le funzioni di indirizzo strategico, la programmazione finanziaria e quella del personale docente e tecnico amministrativo: in particolare le scelte in tema di didattica, di ricerca e di reclutamento del personale docente e tecnico amministrativo, incluse quelle concernenti l’attivazione o la soppressione di corsi e sedi (art. 2 c. 2 lett. f). Il Cda non sarà tuttavia espressione della comunità accademica, anzi: è composto, oltre che dal Rettore e da una rappresentanza elettiva studentesca, da personalità italiane o straniere designate o scelte per la loro “comprovata competenza in campo gestionale”. Inoltre almeno il 40% dei membri del Cda dovrà non appartenere ai ruoli dell’ateneo: i privati possono dunque detenere la maggioranza assoluta (art. 2 c. 2 lett. g).
Anche il Rettore potrà essere una personalità esterna all’ateneo, scelta cioè tra i professori ordinari di altre università dotate di esperienza gestionale (art. 2 c. 2 lett. b), secondo una logica tipica delle imprese ma non anche delle comunità democratiche. E sarà un Rettore padrone, non più solo responsabile del governo dell’ateneo, ma direttamente investito delle funzioni di “indirizzo, iniziativa e coordinamento delle attività scientifiche e didattiche” (art. 2. c. 2 lett. a).
Insomma, il Cda e il Rettore si spartiranno i poteri finora riconosciuti al Senato, che per il futuro potrà solo formulare proposte e pareri in materia di didattica e ricerca, e dovrà inoltre essere formato da personalità non appartenenti ad altri organi accademici (art. 2 c. 2 lett. d).
E queste trasformazioni non saranno il risultato di un processo costituente, come si addice alla portata della fase che si vuole aprire nell’università italiana: gli atenei dovranno far modificare i loro statuti da un commissione controllata dal Rettore o da organi presieduti dal Rettore, e adottarlo entro sei mesi. Sarà insomma una fase di rodaggio per il Rettore padrone, che magari potrà dilatare il suo periodo di permanenza nella carica e magari far scrivere nel nuovo statuto che spetta a lui la designazione dei membri non elettivi del Cda.
La cancellazione del diritto allo studio. – Lo snaturamento del carattere pubblico dell’università non passa solo dall’assunzione di modelli organizzativi tipici dell’impresa e dal coinvolgimento dei privati nell’assunzione delle scelte strategiche. La logica della privatizzazione pervade anche tutto ciò che concerne il diritto allo studio, cioè il diritto di accedere all’istruzione superiore, la cui attuazione presuppone il sostegno dei meritevoli anche se privi di mezzi (art. 34 Cost.). Il DDL 28/10/2009 si fonda invece sull’idea che il merito non sia condizionato dalla condizione sociale ed economica, ovvero che dipenda solo dal sacrificio individuale. In tal senso non si parla di diritto allo studio, bensì di semplice promozione dell’eccellenza e del merito, da realizzarsi in prevalenza attraverso il mero prestito di denaro (art. 4 c.1). Il tutto finanziato da un fondo alimentato da donazioni private e solo eventualmente da versamenti pubblici (art. 4 c. 7), amministrato dalla Consap (art. 4 c.4): una società per azioni controllata dal Ministero dell’economia che si occupa di servizi assicurativi pubblici e di vicende quali la gestione del fondo vittime della strada (sic!).
Insomma, nell’università privatizzata non ci sono studenti, bensì solo clienti. E i clienti non hanno il diritto di consumare, ricevono tutt’al più premi quando superano un certo volume di spesa: quando sono meritevoli e non anche quando sono privi di mezzi.
Merito: un concetto sexy. – I riferimenti al merito abbondano nel testo del DDL 28/10/2009 e soprattutto nei discorsi dei suoi ispiratori e sostenitori: il merito va promosso nell’intero sistema universitario, finalmente teso a premiare “i migliori”. Peraltro non è di merito che occorre discutere, bensì del metro utilizzato per misurarlo: il merito non è un concetto naturale o neutrale, in quanto tale non riconducibile a opzioni di valore. Se infatti si premia il merito degli studenti a prescindere dalla loro condizione economica e sociale, si finisce inesorabilmente per riprodurre e consolidare quella condizione. Lo stesso vale per la valutazione del merito della didattica e della ricerca: il ricorso a criteri politici premierà il pluralismo e il contributo alla dialettica democratica, l’utilizzo di parametri economici valorizzerà invece il conformismo intellettuale e la produzione di rendite a breve termine.
Il DDL 28/10/2009 associa il merito all’efficienza del sistema universitario e affida la sua misurazione all’Associazione nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca (ANVUR). E’ forse troppo presto per valutare l’impatto di questo ente e tuttavia alcune indicazioni si ricavano dalle esperienze estere prese a modello, che molti intendono superare a causa delle prevalenza del punto di vista imprenditoriale e dei costi eccessivi della valutazione. Senza considerare che in quelle esperienze la valutazione viene utilizzata per l’attribuzione di fondi ulteriori rispetto a quelli necessari alla sopravvivenza, e non di una quota del fondo di finanziamento ordinario (come stabilito invece dalla L. 1/2009).
Parallele convergenti. – La riforma prefigurata dal DDL 28/10/2009 non è stata concepita nelle segrete stanze di un ministero. E’ stata palesemente concordata o comunque discussa con attori politici ed economici, e soprattutto con la Crui, che è un’associazione privata tra università rappresentate dai loro Rettori, divenuta non si sa come l’interlocutore principale delle politiche sull’università.
Secondo il Presidente della Crui (comunicato del 28/10/2009) il DDL rappresenta “un’occasione fondamentale e per molti versi irripetibile per chi ha davvero a cuore il recupero e il rilancio dell’università italiana”, criticabile solo per la mancata “disponibilità adeguata di risorse” (un po’ come dire che i Rettori sono in vendita). Il che è in coerenza con quanto da tempo sostenuto dalla Crui in tema di governo dell’università, per il quale si ritiene evidentemente inadatto il metodo democratico, liquidato come affetto da assemblearismo “deresponsabilizzante”. Da qui l’incentivo a differenziare tra un Senato cui attribuire funzioni secondarie, e un Cda “al quale attribuire compiti determinanti nella definizione degli obiettivi strategici istituzionali e della connessa programmazione amministrativa, finanziaria e patrimoniale, nella individuazione dei criteri e delle finalità per la ripartizione delle risorse finanziarie e di personale”. Va da sé che il Cda deve comprendere “una consistente e autorevole presenza di soggetti esterni all’ateneo”, chissà come fissata in “almeno il 40%” (documento del 19/2/2009) (Nota 1 dell’ANDU)
Non stupisce che la Confindustria abbia un orientamento simile. Stupisce che lo abbia anche il Piddì, che già ai tempi del governo ombra voleva riservare al Senato solo limitate funzioni in materia di didattica e di ricerca, e concentrare nelle mani del Rettore e del Cda i poteri tipici dell’organo di governo dell’ateneo (documento del 28/10/2008). Questi propositi si sono concretizzati in un recente progetto di legge (del 22/5/2009), in cui si affidano al Rettore “funzioni di iniziativa e coordinamento delle scelte strategiche”, e al Cda decisioni su “la realizzazione di infrastrutture, l’organico e il reclutamento del personale, l’attivazione dei corsi di studio e l’allocazione di risorse alle strutture interne” (art. 5 c. 6). A queste condizioni non si capisce cosa residui al Senato, cui pure si riserva il potere di definire “i piani strategici delle attività e gli indirizzi culturali, didattici e di ricerca dell’ateneo” (art. 5 c. 4).
E anche nella proposta del Piddì ricorrono ovviamente incentivi al coinvolgimento dei privati nel governo dell’università. Si stabilisce che nel Cda, i cui membri sono designati in parte dal Rettore, devono sedere persone esterne all’università, questa volta nella misura di “almeno un terzo” (art. 5 c. 7). (Nota 2 dell’ANDU).
Nei giorni scorsi il Piddì ha nominato una nuova responsabile delle politiche su università e ricerca: c’è da augurarsi che la sostituzione di chi ha mostrato tanta sintonia con le proposte di Confindustria preluda a un deciso cambio di rotta.
Scenari futuri. – Il DDL di riforma dell’università trae dunque spunto dai desiderata di un ampio arco di forze. Queste possono dissentire su singoli aspetti della riforma, ma concordano sulle sue linee generali, motivo per cui sono soprattutto interessate a ottenere adeguati finanziamenti, o quantomeno la cancellazione dei tagli già decisi (L. 133/2008). Del resto riforme dello stesso tipo si sono viste o si stanno per concretizzare in tutti i Paesi partecipanti al cosiddetto Processo di Bologna (ovvero la creazione entro il 2010 di uno spazio europeo dell’istruzione superiore). E’ cioè oramai diffusa l’idea che l’università debba non solo confrontarsi con il mercato, ma anche assumere le sembianze di un operatore del mercato, che tuttavia fa ampio uso di soldi pubblici (secondo un meccanismo di privatizzazione dei profitti e socializzazione delle perdite molto utilizzato in tempi di crisi economica internazionale).
Il mercato è insomma il terreno entro cui sviluppare e valutare la didattica e la ricerca accademica, il metro di scelte affidate al circuito dell’economia e sottratte al circuito della politica, quindi valutate per la loro efficienza e non per la loro capacità di produrre emancipazione individuale e collettiva. In questo risiede il senso della privatizzazione dell’università, la sua trasformazione in comunità cooperante e aperta in una sommatoria di individui ed enti in concorrenza tra loro per compiacere le istanze del mercato. E che a esse sacrifica conquiste come il valore legale del titolo di studio e i limiti all’aumento delle tasse universitarie (la cui abolizione è richiesta da un coro bipartisan).
A queste condizioni non è difficile prevedere un futuro fatto di poche università destinatarie di fondi magari ingenti, ma solo perché operano in contesti economici avvantaggiati e sono inoltre disposte a governarsi secondo i dettami del mondo imprenditoriale. Mentre altri atenei saranno ridotti al lumicino o costretti alla chiusura, ma solo per la loro collocazione in aree di scarso interesse economico o per l’indisponibilità a snaturare il proprio carattere pubblico (e nessuno potrà stupirsi se tra le prime ci saranno università virtuali o recentemente sorte come sedi distaccate, e tra le seconde sedi antiche e prestigiose).
E’ dunque evidente che il DDL 28/10/2009 non può rappresentare una base di discussione per il rilancio dell’università, né tanto meno può essere considerato un disegno la cui unica pecca sia quella di non essere adeguatamente finanziato. L’università va cambiata, non si tratta qui di difendere l’esistente. Ma il cambiamento non può far altro che estendere e rafforzare ciò che rende pubblica l’università: il suo essere luogo di democrazia e di confronto aperto ma equilibrato con la società in trasformazione.
– Nota 1. L’ANDU sulla mozione della CRUI il 24 febbraio 2009 ha diffuso il documento “La ‘governance’ degli Atenei dei Rettori“.
– Nota 2. L’ANDU sul disegno di legge del PD l’1 giugno 2009 ha diffuso il documento “DDL PD: commissariamento di Atenei e docenti“.
* In corso di pubblicazione in “Articolo 33”.
Condivido in tutto l’analisi di Alessandro Somma, che evidenzia lucidamente il progetto di smobilitazione dell’Università pubblica. Un solo dettaglio trovo discutibile (e rischioso): la reiterata grafia Piddì invece di PD. E non per mia adesione al PD, o alla sua politica universitaria (tutt’altro!), ma perché vi intravedo un pericolo: la maggior parte di coloro che negli anni Sessanta/Settanta affidarono alla grafia Picciì tutto il loro irriducibile dissenso dal PCI, naturalmente da sinistra, oggi militano nelle fila berlusconiane. E mi dispiacerebbe se lo stesso dovesse accadere, fra qualche tempo, a Somma.
25 novembre 2009
Non credo che il cambiamento di responsabile porterà a nessun cambiamento significativo, sia perché a spingere il PD verso l’accordo sul ddl sono anni di sostanziale condivisione delle stesse politiche della destra, finanziamenti a parte. Sia perché noi a Pisa abbiamo il piacere di conoscere bene entrambi, sia Modica che Carrozza, e non mi pare di cogliere particolari differenze, anzi. A riprova di quanto affermo, si leggano i due seguenti interventi, praticamente identici (anzi, forse Modica si dimostra più prudente e critico della Carrozza):
http://rassegnastampa.unipi.it/rassegna/archivio/2009/11/11SIG3035.PDF
http://rassegnastampa.unipi.it/rassegna/archivio/2009/11/07SIG6120.PDF