Diffondiamo molto volentieri il sottoriportato intervento sul “3 + 2” (e non solo) inviatoci da Marina Montacutelli e proponiamo un indovinello. E’ stato un esponente di Confindustria, un professore ‘american-confindustriale’ o un componente della Segreteria nazionale dei DS a dichiarare: “Lasciamo che le università si facciano male (scegliendo docenti mediocri, ndr) purché ci sia un criterio che faccia emergere questo male”? Per avere la risposta giusta basta leggere l’articolo “Oggi incontro Mussi-imprenditori. Riforma degli Atenei. Confindustria ai Poli: Dialogo, basta veti'” sul Corriere della Sera del 14 giugno 2006, pag. 19 (v. nota). Il ministro Mussi incontra gli Impreditori. Il 29 maggio 2006 le Associazioni e le Organizzazioni unitarie della docenza hanno formalmente chiesto un incontro al Ministro e fino ad oggi non è pervenuta alcuna risposta.
Nota. Per leggere l’articolo citato: (non si deve spezzare la stringa di caratteri, altrimenti il collegamento fallisce!) http://rassegnastampa.unipi.it/ rassegna/archivio /2006/06/ 14SIC3036.PDF
From: “Marina Montacutelli” :
To: “‘ANDU'” <anduesec@tin.it>
Subject: contributo sul 3+2
Date: Wed, 14 Jun 2006 01:20:17 +0200
Cari colleghi,
come contributo al dibattito sul 3+2 vi invio, in allegato, l’intervento che ho presentato ieri al forum dei DS “E quindi uscimmo a riveder le stelle”. Il testo e’ stato pubblicato su Aprile on line e, ovviamente, vi autorizzo a diffonderlo
Cordialmente
Marina Montacutelli
Intervento al Forum DS “E quindi uscimmo a riveder le stelle.”, Roma – 12
giugno 2006
Pubblicato su Aprile on line, 14 giugno 2006
Il re è nudo?
Passeggiata in uno dei tanti gironi infernali
Marina Montacutelli
Tra i vari gironi infernali possibili – quello di qualche presidente simoniaco e superbo, che svende la scienza inseguendo l’azienda; quello di qualche direttore, che dovrebbe camminar sfiancato per il peso di cappe di piombo, come meritano per padre Dante gli ipocriti; quello – subìto – di chi è costretto a conoscer lo pane altrui, magari oltreconfine; quello dell’usanza italica dei cambiacasacca, cioè dei traditori della patria o degli amici (anche se camuffati da astuti Ulisse o da proficui, autoreferenziali girotondi); quello delle Malebolge, dove troviamo i ruffiani, gli ingannatori e i lusinghieri; quello dei predoni di questi anni, che Dante immergerebbe nel sangue bollente – ve ne propongo un altro, di girone. Conficcato giù, nel profondo dell’inferno. E ben radicato, nel tempo e nelle convinzioni. Con una premessa: se non ora, quando? Quando, cioè, parlare? Giacché ci troviamo- sui temi dell’università e della ricerca, temo non solo per quelli – in ciò che mi sembra ancora un brodo primordiale, nei programmi e nelle sia pur buone intenzioni: quando, se non ora, che abbiamo finalmente finito di dar conforto alla sparuta pattuglia di deputati e senatori che, anime in pena, si aggiravano in un parlamento umiliato e offeso? Quando, se non ora, che guardiamo le macerie fumanti del Paese e dei luoghi del sapere e non sappiamo dove cominciare a metter le mani? Quando, se non ora, che il tempo delle promesse è davvero finito, e non lo dice solo Montezemolo? quando, se non ora, dobbiamo parlare e cominciare a metter ordine e dar corpo, senso, direzione a questo brodo primordiale del programma? E dobbiamo prender l’astronave, o contemplarle soltanto le stelle che usciamo – certamente – a rivedere? E l’astronave che vogliamo prendere è un’astronave che va a pedali? Ed è qui, che dobbiamo parlare? Ci ascolterete? A me, in questi giorni, l’hanno chiesto in tantissimi. Il girone infernale, uno tra i tanti possibili, è quello dei barattieri: sommersi nella pece e uncinati dai diavoli. Oppure quello dei falsari, afflitti da lebbra o scabbia. Molti di noi dovrebbero cominciare a grattarsi furiosamente: eppure la pena più grave, per padre Dante, spetta a chi pecca consapevolmente. Dove e quando ha peccato, chi di noi rilascia il titolo breve o magistrale? Il nostro mestiere è esercitare i cervelli, non allevare asini; pure, sembriamo tanti Lucignoli. Siamo falsari e barattieri, perché facciamo mercato fraudolento di un titolo pubblico, e
ancora con valore legale. Chi ci ha messo, e perché, in questa situazione? Compito della politica è dare il quadro normativo, e le risorse, affinché anche da un cattivo professore possa uscire comunque un discreto studente. Non è questa la situazione delle università italiane, non c’è la “concorrenza sulla qualità” ma, piuttosto, centri luminescenti sotto i riflettori, autonominatisi d’eccellenza o proclamati tali per decreto e spesa pubblica quando le università non hanno neanche la carta e le aule. Abbiamo però l'”accoglienza”, anche se non vendiamo – con tutto il rispetto – prosciutti e ci manca ancora il “customer care”. Abbiamo però la pubblicità allettante (finché non ci acciuffa l’authority per l’ingannevole), per rubarci l’un l’altro gli studenti e rientrar così nelle tabelle ministeriali: eppure, per una buona università, il biglietto da visita dovrebbero essere i suoi laureati. Gli ultimi anni hanno solo fertilizzato il terreno, producendo una “serialità necessitata” (il tre, e poi il 2) per quella che è stata definita una laurea – obbligatoriamente magistrale, ma di ignoranza – davvero inutile. Necessitata da un paese sfiatato ed economicamente disperato; necessitata da una società che produce attempati adolescenti a casa di mammà, sfiduciati cacciatori di crediti tanto la prospettiva è l’agenzia o il progetto, come si chiama adesso; necessitata da una politica che ha prodotto lemmi da partita doppia, che mercificano un sapere disseccato e svilito, ingravidato di pressappochismo e ignoranza. Noi, ora nel girone infernale, non avevamo chiesto l’America; ce l’hanno data lo stesso: ma quella delle pianure, non certo Princeton; ce l’hanno poi spacciata per Europa, e non è neanche questo perché nel continente stanno persino riconsiderando i sistemi di alta formazione perché non funzionano e spostano solo più in là – o più nelle casse dei privatissimi master – l’asse della professionalizzazione, se è questo l’unico terreno – insieme a quello delle performances – che si vuol praticare. Questa università è speculare a un Paese in declino e che dichiara la propria bancarotta; produce un Paese tayloristico nella forma e balbuziente nella sostanza.
La pagheremo tutti.
E non mi riferisco soltanto, come ci dicono sempre, alla materie umanistiche. E non mi riferisco soltanto, perché i dati non sono il latinorum e sappiamo leggerli e produrli anche noi, a quel che ci dice Alma Laurea, rispettabilissimo e serissimo consorzio – peraltro a pagamento – di 48 università italiane in campione purtroppo non statisticamente significativo sulle tante, ormai disseminate in ogni campanile. I dati, per chi vuol cercarli, ci sono: e ci dicono che i laureati non sono aumentati (basterebbe scorporare, e guardare alla data di immatricolazione) e i tassi di uscita relativi alla totalità della coorte si stimano intorno al 40% (su un piccolo campione di università di media dimensione e in media ponderata) tra il primo e il secondo anno, e intorno al 15% tra il secondo e il terzo anno: è tanto, per chi aveva dato – a noi e alla società – la fiducia di iscriversi all’università. Aumentano gli iscritti, non certo nelle facoltà tecnico-scientifiche peraltro, e poi se ne vanno. Quelli che restano, continuano stancamente ad accumular crediti e a subire un sapere parcellizzato e screditato, spezzettato e propinato quando e come si può: d’altra parte, perché correre verso il call center? Giacché, con la nuova laurea, non si trova certo più lavoro e questo lo dice pure Alma Laurea che ci conforta anche su un altro dato: i laudatores del nuovo sistema hanno guardato alle “performances” dei primi laureati, per autoconfermarsi e legittimarsi: ma “è evidente che i primissimi laureati post-riforma [.] non possono che essere i migliori laureati in assoluto rilevati in termini di performance e, come tali, raggiungere spesso livelli di eccellenza”. A regime, gli studenti hanno capito e le aziende pure: e il lento pede rimonta vittorioso, confortato dall’economia, dalla politica e dalla società. Noi non abbiamo bisogno di un lifting che certifichi e ratifichi la
strategia dell’esclusione. Abbiamo bisogno di un progetto forte e condiviso, perché le riforme senza condivisione hanno il crisma dell’autoritarismo e comunque falliscono. Perché ogni reazione ne produce, quantomeno, una uguale e contraria. Perché anche noi abbiamo una dignità. E perché, dopo l’assolutismo, c’è stata la rivoluzione francese. L’auspicio sarebbe che si creino gruppi di lavoro permanenti tra noi ed una seria ricognizione statistica del sistema del 3+2 e dei crediti al
Ministero: senza dar nulla per scontato, perché – a me – il re sembra nudo e serve solo un bimbo che lo gridi. Mi chiedo, infine, cos’è questa “governance” di cui si parla tanto: perché occorre cambiare davvero mentalità, se si vuole essere uomini di stato e capaci di “sovranità”, e non solo rappresentanti di fazioni. Anche, se si
ha l’intenzione di proporla di tipo “just in time”: ricordandoci che il modello giapponese, sia nel suo comprar brevetti che nella sua fabbrica senza uomini (e forse senza costrutto), è fallito da almeno quindici anni. Lo so che avere a che fare con noi non è facile: come chi diceva contro Galileo, nella sua versione brechtiana: “il mondo è percorso da un’inquietudine nefanda; e l’inquietudine dei loro cervelli, costoro la trasferiscono alla terra (.) immobile.(.) Loro mettono in dubbio ogni cosa; e possiamo noi fondare la compagine umana sul dubbio, anziché sulla fede?” .
E’ vero, noi dubitiamo.