Facoltà o Dipartimento? Un contributo di Guido Martinotti e un commento

Concordo in buona misura con quanto scrive Marco Romano (v. nota), e gli amici dell’ANDU sanno che seguo con attenzione e talvolta partecipazione critica il loro lavoro. Tralascio di commentare i singoli punti per limitarmi a segnalare una memoria storica importante, anche per il futuro assetto, se ne potrà, come mi auguro, parlare seriamente nei prossimi anni.

La Facoltà era stata eliminata da tutti i documenti delle Commissioni che hanno preparato la 509 e le sue attribuzioni di ordinamento didattico erano sempre state attribuite a organismi di “unità didattica”. La Facoltà è stata re-introdotta dal Ministro Zecchino, letteralmente nelle ultime ore notturne che hanno preceduto il varo del testo definitivo del provvedimento. Le reazioni di chi consigliava il Ministro (a quel punto io ero già uscito dal novero) si divisero tra chi riteneva si sia trattato di una vera mina sotto la linea di galleggiamento della riforma e chi invece pensava che fosse un doveroso riconoscimento delle tradizioni. Ma al di là della storia, il problema rimane. La Facoltà è il primo anello di una catena di regolazione della quantità totale e della composizione disciplinare e strutturale della forza lavoro del sistema universitario, tramite l’imponibile di manodopera operato con i SSD e i crediti. Da qui il potere dei presidi che gestiscono i conflitti all’ingresso. Questo sistema presuppone che l’insieme di questi meccanismi decisionali produca il giusto mix di segmenti della forza lavoro (tot fisici, tot biologi, tot giuslavoristi, ecc.) necessari al sistema. Questo assunto è difficile da provare e nella pratica avviene che a) il sistema si irrigidisce ed è poco sensibile alle variazioni della domanda sul mercato del lavoro b) che il reclutamento grazie anche al corollario dei concorsi nazionali è un sistema di code e non di scelta per merito (in altre parole difficilmente una Facoltà può reclutare un giovane bravo sul mercato non inserito in una coda) c) che le code sono costruite minimamente sul merito e sul giudizio dei pari (perché io sociologo devo in genere accettare a scatola chiusa il giudizio dei colleghi giuristi, per esempio, sulle loro chiamate) e massimamente sugli accordi incrociati. Si può pensare a un sistema diverso? E’ noto che in linea di massima (di molta massima perché le variazioni sono forti) le buone università nel mondo si costruiscono con un sistema opposto in cui il reclutatore è il gruppo dei pari (dipartimento) che opera per reclutamento diretto sul mercato accademico, in base alle risorse disponibili negoziate a livello di ateneo e non a un imponibile di manodopera, e che pertanto la composizione totale della forza lavoro è il risultato di un processo bottom up, più che della concertazione top down ed è quindi in teoria più sensibile alle variazioni della domanda del mercato del lavoro. Poiché nessun sistema è perfetto basta parlare con un collega americano, per mettere a nudo molti difetti, anche di questo sistema. Ma, e questo è il punto, anche chi è critico mai proporrà un sistema più centralizzato e dal punto di vista della esperienza storica i sistemi universitari si stanno muovendo da sistemi per code a sistemi a reclutamento diretto. Il gruppo “Diamo Voce”, di cui faccio parte, è convinto che anche il sistema italiano debba andare in questa direzione. Si può passare rapidamente da un sistema all’altro? No, perché se si facesse una riforma overnight in questo senso, prima di aver messo in opera dei meccanismi di controllo e garanzia come il meccanismo di valutazione nella attribuzione di risorse -che già è stato impiantato con parziali successi (non buttiamo via le cose buone e superavanzate del nostro sistema, come la valutazione delle ricerche testé completata o l’accreditamento nazionale dei titoli di studio!) fin dai tempi di Ruberti – o altri meccanismi semplici anti “sand-box effect” come la non chiamata dei propri PhD o simili, si premierebbe una ondata di assunzioni clientelari che impedirebbe per anni un passaggio al reclutamento per merito. Si può però (e per noi D.V. si deve) avviare un processo di transizione che elimini l’attuale “rigidità corrotta” (parole dell’Economist) che caratterizza il nostro sistema di reclutamento. Ed è qui che divergo da Marco Romano.

Il ministero Moratti non è criticabile perché ha istituito commissioni, lo fanno tutti, ma perché ha introdotto nella conduzione del Ministero le tecniche berlusconiane di televendita alla Vanna Marchi che sta portando sul piano dell’amministrazione cittadina. Sotto la bandiera “abbasso i baroni” ha riammesso nella sua leggina pomposamente chiamata Riforma, tutte le peggiori pratiche centralistiche e di potere baronale che erano state, con fatica, contraddizioni e incompletezza, espunte dal sistema da Ruberti in poi. Vedasi Pierluigi Pellini, “La riforma Moratti non esiste”, Milano Il Saggiatore, 2006. E’ questa, tra le tante prodotte dalla maggioranza uscente, una delle peggiori devastazioni, vendere per Cacao Maravigliao quelle scatole di Piero Manzoni che tanto indignavano la buona borghesia milanese da cui la signora Brichetto proviene. GM

Nota. Per leggere il messaggio all’ANDU di Marco Romano (“Critiche e
proposte all’ANDU”): http://www.bur.it/2006/index.php
oppure
http://www.orizzontescuola.it/article10541.html

UN COMMENTO

      Le riforme universitarie non dovrebbero mai essere improvvisate, pasticciate o ‘aggiustate’ all’ultimo minuto. Esse dovrebbero sempre essere ‘partecipate’ e condivise dal mondo universitario. La ‘resuscitazione’ delle Facoltà, dalla sera alla mattina, ricordata da Guido Martinotti per la Legge 509 (“3 + 2″), è coerente con il modo approssimativo e autoritario (finanziarie, voti di fiducia) con il quale si sono varate quasi tutte le leggi universitarie negli ultimi decenni. La 509, tra l’altro, è stata approvata fuori da quel “quadro di contemporaneità e di coerenza”, che avrebbe dovuto comprendere anche “lo stato giuridico del corpo docente”, come aveva auspicato il Gruppo di lavoro ministeriale presieduto da Martinotti (nota 1). Sulle modalità e le responsabilità politiche dell’approvazione della 509 si invita a rileggere l’intervista a Roberto Moscati e gli interventi di Alessandro Dal Lago e Antonio Pasini (nota 2). Lo spostamento dalla Facoltà al Dipartimento del potere sostanziale del reclutamento dei docenti è, mi sembra, la posizione di Marco Romano e di Guido Martinotti. E Martinotti vorrebbe che una tale riforma fosse preceduta da altre (valutazione, meccanismi anti-localismo) altrimenti, dice, si rischierebbe di provocare “una ondata di assunzioni clientelari”. La riforma del reclutamento è diventata ormai, giustamente, una vera e propria emergenza.

      L’ANDU ha più volte scritto quello che tutti sanno e in pochi dicono: per cambiare realmente gli attuali meccanismi di reclutamento dei docenti si deve superare la cooptazione personale che caratterizza il sistema universitario italiano. Infatti, in Italia, a decidere chi e quando debba cominciare la carriera universitaria in ruolo è, di fatto, il singolo barone che sceglie il suo ‘allievo’ già al momento della tesi, poi gli fa avere il dottorato di ricerca, l’assegno di ricerca e/o qualche borsa e/o qualche contratto e quindi il posto di ricercatore attraverso un finto concorso della cui commissione è membro interno.       

      Questo modo ‘personalizzato’ di reclutare accompagna poi la carriera del reclutato per il quale lo stesso ‘maestro’ si darà da fare per ottenere il bando dei ‘concorsi’ ad associato e a ordinario, preoccupandosi anche della loro ‘gestione’. Tra l’altro, la ‘macchina’ delle attuali modalità di reclutamento e di promozione dei docenti distoglie non poco i ‘maestri’ dall’attività di ricerca e condiziona non poco la quantità, la qualità e i temi della ricerca degli ‘allievi’. Contro questo stato di cose si sono ipotizzati diversi interventi. Di fatto, però, dopo il 1980, nessun provvedimento ha riformato i meccanismi del VERO RECLUTAMENTO, cioè i concorsi a ricercatore, fascia della docenza dove si recluta la stragrande maggioranza di chi non fa già parte del ruolo della docenza.
      Le riforme Berlinguer e Moratti si sono limitate a modificare i ‘concorsi’ ad associato e a ordinario, che in realtà servono quasi sempre all’avanzamento di carriera di chi è già in ruolo. Mantenendo le procedure iper-localistiche dei concorsi a ricercatore previste dal DPR 382 del 1980, si è voluta mantenere la cooptazione personale, che comporta anche il controllo umano di chi intraprende e percorre la carriera universitaria. Insomma, si è voluto mantenere un sistema di potere imperniato sul carattere ‘localissimo’ dei finti concorsi a ricercatore che sono serviti e serviranno a ‘ratificare’ l’ingresso in ruolo di chi è stato pre-scelto dal proprio ‘maestro’. 

        La proposta di Martinotti di vietare che in una sede si recluti chi ha conseguito il dottorato in quella stessa sede vuole andare nella direzione del superamento della cooptazione personale, ma non basterebbe ad impedire i reclutamenti incrociati: tu recluti il mio ‘allievo’, io il tuo e più avanti ce li ‘scambiamo’. L’ANDU propone da anni che il reclutamento dei docenti (cioè l’ingresso di chi non è già in ruolo) avvenga per concorso nazionale, con una commissione interamente sorteggiata e composta di soli ordinari. Quindi, una commissione che, rispetto a quella attuale, è più qualificata e non ha alcun componente locale, senza però essere ‘egemonizzata’ dai gruppi nazionali più forti. È questo, a nostro avviso, l’unico modo per ‘spersonalizzare’ il reclutamento e, quindi, il successivo avanzamento nella carriera. Approvando prima questa riforma e rivedendo prima i criteri di formazione e la consistenza dei Dipartimenti, in queste strutture si potranno ‘incardinare’ i docenti, senza rischiare un’ondata di assunzioni perfino più clientelari di quelle attuali. Alle Facoltà rimarrebbe l’importante compito (finora poco svolto) del coordinamento didattico dei Corsi di Studio, strutture quest’ultime centrali per la didattica, il cui compito è stato finora ‘compresso’ dalle Facoltà. Per la proposta dell’ANDU sulla riforma della docenza v. nota 3. Martinotti attribuisce dei meriti al ministro Antonio Ruberti. E’ giusto però ricordare che la sopravvivenza ‘forzata’ del ruolo improprio delle Facoltà (e dei Presidi) è stata voluta proprio da Ruberti che nella sua legge sull’autonomia statutaria del 1989 previde che l’organo costituente fosse il Senato dei Presidi di Facoltà allargato (Senato Accademico Integrato, appunto) e impose la presenza dei rappresentanti (di fatto i Presidi) delle Facoltà nei ‘nuovi’ Senati Accademici. Il più avanzato tentativo di ‘ridimensionare’ il peso delle Facoltà nei Senati Accademici fu fatto con lo Statuto dell’Università di Palermo: 46 componenti, tra i quali gli 11 rappresentanti delle Facoltà non erano necessariamente i Presidi. Questo Statuto fu demolito da un Ministero che è riuscito ad essere clientelare anche nella valutazione giuridica degli Statuti e da numerose sentenze amministrative sempre più devastanti (l’autonomia universitaria gestita dai TAR!). Per la proposta dell’ANDU sulla governance v. nota 3.

8 maggio 2006

Nunzio Miraglia – coordinatore nazionale dell’ANDU

 

 

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