Diffondiamo, col consenso dell’Autore, una comunicazione che Guido Martinotti ci ha inviato in relazione al documento dell’ANDU “La laurea bonsai di Guerzoni” del 6 luglio 2002 (nota). L’intervento, ‘denso’ e appassionato, di Martinotti, che ha presieduto il Gruppo ministeriale che ha elaborato nel 1997 il “Rapporto” servito da base per la riforma del “3 + 2”, costituisce certamente un interessante contributo alla ricostruzione della vicenda della riforma e al dibattito in corso. Da parte nostra, in questo momento, ci limitiamo a ribadire:
1. è necessario prendere atto che la riforma è complessivamente fallita e si è tradotta in un danno notevole per gli studenti e le loro famiglie;
2. il tempo necessario per analizzare meglio questo dato non deve impedire che da subito si cerchino i rimedi necessari per fare recuperare alle lauree italiane quel livello che prima della riforma era certamente superiore al livello medio degli altri Paesi europei e di gran lunga superiore a quello medio statunitense;
3. i motivi principali del fallimento sono stati soprattutto l’approssimazione e la superficialità, unite ad una ‘scimiottatura’ di modelli non importabili, con le quali il gruppo accademico che gestiva il Ministero ha imposto la riforma al mondo universitario italiano;
4. una riforma di tale portata poteva essere ‘costruita’ solo assieme a coloro che avrebbero dovuto applicarla, e doveva essere preventivata la necessità di fare i conti anche con il già noto ‘conservatorismo’ dei docenti;
5. l’applicazione autoritaria della riforma è stata, tra l’altro, caratterizzata da una rigidità insensata che ha portato a pretendere di imporre le stessa ‘formula’ a tutte le lauree;
6. la didattica è un processo in continuo divenire che può essere solo penalizzato da bruschi e radicali cambiamenti;
7. se non si ricercano dall’interno dell’Università e da subito le correzioni, si lascia campo libero ad altre riforme ‘inventate’ e imposte come quella ad Y, che servirà solo ad accrescere la confusione e ad abbassare ulteriormente la qualità dell’insegnamento e dei titoli. Contro questa nuova imposizione è necessario che l’Università si ribelli, come avrebbe dovuto fare nei confronti della riforma del “3 + 2”.
Nota. Il testo del documento dell’ANDU in:
http://www.bur.it/sezioni/sez_andu.php 07 luglio 2004
Da Guido Martinotti all’ANDU:
Sapete da mie passate comunicazioni che questo è un punto di disaccordo con ANDU. Premesso che lo schema originale della mia commissione era su 4 anni e che il 3+2 viene da un tentativo europeo di produrre un sistema trasparente e leggibile dall’esterno in un quadro di competizione mondiale per la formazione – che riceve uno straordinario impulso oggi dalle forti restrizioni nel sistema americano, ho più volte detto di essere piuttost scettico a proposito della disputa sui numeri. Non so se siano necessari 3, 4, 6 o più anni per una preparazione, ma so per esperienza personale che alla Columbia University, dove quando ho studiato io insegnavano i massimi studiosi mondiali della materia (Merton, Lazarsfeld, Bell,Linz ecc) si prendeva il Master in un anno. E pur calcolando i due anni della upper division del college, che peraltro poteva benissimo essere stata usata per un altro major, visto che gli americani non hanno la paranoia della canalizzazione precoce, ma pensano che uno studente maturo possa applicarsi in qualsiasi campo, siamo a tre anni. La mia laurea quadriennale non veniva equiparata al Master, ma solo al BA, quattro anni dopo la high school, che notoriamente finisce un anno prima del nostro liceo e da una educazione incomparabile come qualità alle nostre superiori. Questa era più o meno la situazione di tutti i curricoli americani delle materie Arts & Science divisions. Ma se sentite Zich vi potrà spiegare le fatiche che gli ingegneri hanno fatto perché la loro laurea ottenesse l’equiparazione al Master! Voglio precisare che cito il sistema americano, non perché lo ritenga applicabile all’Italia. Purtroppo non lo è perché le università americane,anche se scadenti, sono delle learning communities e quelle italiane, chenel medioevo hanno inventato le learning communities oggi rifiutano di ricrearle perché hanno forfettizzato il loro funzionamento a un establishment baronal-ministeriale, largamente romanocentrico, che impedisce la formazione di comunità di scienziati sostituita da corporazioni settoriali. Dico purtroppo perché, come ha scritto Piattelli-Palmarini sul Corriere (del ** sono a Chicago e non ho con me il ritaglio) moltissimi professori e studenti di altri sistemi universitari sognano, a torto o a ragione, le università americane, mentre non ho mai
conosciuto in 44 anni di mestiere un professore o studente americano che sognasse un’università di altro paese, salvo forse Oxbridge.
Io sono abituato ai ragionamenti concreti e so, per esperienza personale che si può ottenere un titolo universitario al massimo livello della mia materia (e vi assicuro che nel 1962 era difficile trovare al mondo un posto più qualificato del Dept of Sociology della CU, e comunque si contavano sulle dita) in un anno,tenendo conto che gli studi che avevo fatto prima (Giurisprudenza) di Sociologia avevano solo due complementari). Allora ne traggo le seguenti conclusioni.
a) La lunghezza in anni degli studi di una materia è un fatto storico e tradizionale. In Italia quattro o cinque o sei anni sono il prodotto storico di singole corporazioni che avevano interesse ad aumentare i singoli insegnamenti per accomodare più cattedre in un sistema tendenzialmente povero. Con una procedura che ha veramente ben poco a che fare con l’organizzazione del sapere. Basta vedere la Facoltà di Lettere dove tradizionalmente si poteva duplicare e persino triplicare un insegnamento senza nessuna considerazione per una supposta coerenza olistica del curricolo.
b) Affermo che è possibile una ricostruzione di curricoli ragionevoli con
una buona preparazione in tre anni per la maggior parte delle classi di sapere, fatte salve tutte quelle che sono peraltro da prima del 509 sotto vincolo europeo.
c) Invece di ripensare i curricoli si è fatta una operazione di “defense du corps” come direbbe Bourdieau, cioè di stretta difesa corporativa a causa di:
1) La reintroduzione surrettizia come mina sotto la linea di galleggiamento delle Facoltà che come voi sapete Zecchino ha fatto più o meno qualche minuto prima della mezzanotte del giorno in cui è stato licenziato il testo della 509. Facoltà=corporazioni=aumento della rigidità= gerrymandering dei settori.
2) la confusione tra anni e crediti. Lungo tutto il lavoro della mia commissione si è evitato di parlare di anni, limitandosi a prendere atto del carapace di quattro anni imposto dalla legge, perché i crediti dovevano avere la funzione di stabilire la quantità e qualità del sapere occorrente in un dato percorso. Dove i crediti sono in uso da tempo, con buona pace dei vari soloni che scrivono sui giornali e che non hanno ancora capito cosa siano, il requisito sono il numero di crediti, cui i singoli atenei aggiungono discrezionalmente un minimum requirement di “in residence” che ha un senso solo er ragioni economiche visto che gli studenti pagano. Facciamoli pagare anche qui (con la restituzione da parte dell’Ateneo di trenta centesimi ogni euro in borse) e vedrete che le cose si mettono largamente a posto. Altrimenti continuiamo a confondere l’orario delle lezioni (che è un fatto organizzativo,che riguarda le aule e i professori) con un problema di apprendimento individuale che è stimato dai crediti. Sono due dimensioni indipendenti.
3) La difesa del corpo in senso proprio, provocata dalle Facoltà e dall’establishment centralistico, grazie al gioco delle materie di base,
caratterizzanti affini eccetera. Mentre i requisiti decisi dal centro dovevano essere minimi, non superiori al 50% c’è stato un glissement progressivo della burocratizzazione verso l’aumento. Nelle Facoltà diSociologia i presidi si sono incontrati e hanno subito aumentato (non diminuito!!) i vincoli. Perché, naturalmente, si sostiene che tutti i sociologi devono sapere questo e quello. Ma questo è veramente il punto cruciale, dato il reclutamento nazionale anche la più minuscola corporazione disciplinare deve trovare un posto al sole, altrimenti scompare. Faccio un esempio della mia materia. Nella mia facoltà si ritiene ( e io condivido) che per diventare dei buoni sociologi occorra conoscere il calcolo matriciale, altrimenti non si capisce la statistica e in ultima analisi non si può leggere l’ASR o l’AJS. Ma è un errore trasformare questo giudizio in regola generale. Ci possono essere buoni sociologi che non sanno nulla di matematica e un’altra Facoltà può decidere che si punta su un altro tipo di formazione. Lasciamoli fare per diana! E’ vero che la Sociologia è poco professionabile, ma non è la sola disciplina. Da tempo mi ripropongo di fare una analisi dei testi di Facoltà anche molto professionali (escluse, ripeto quelle sotto il vincolo europeo) per vedere le sovrapposizioni e gli sprechi imposti dalla frammentazione corporativa. Sono questi i fattori che hanno contribuito alla bonsaizzazione, cioè il tentativo tutto italiano di far convivere due modelli, la spinta alla autonomia e alla responsabilizzazione, premesse non evadibili per la creazione di learning communities e le controspinte dell’establishment baronale-ministeriale che vogliono difendere i privilegi delle corporazioni. E’ qui la fonte della bonsaizzazione e della ikeizzazione dei curricoli, non nel fatto che siano di uno, due, tre o n anni. La lunghezza del curricolo non è dovuta al peso del sapere, ma al peso delle posizioni acquisite da preservare. Fintanto che non si risolverà questa contraddizione con una scelta coerente pagheremo i costi delle soluzioni peggiori di ciascuno dei due modelli. Che poi in un processo decisionale complesso con i vincoli politici che ben conosciamo, compreso il cambio di ben tre ministri tra l’ideazione e l’attuazione si siano commessi errori è cosa che non credo Guerzoni stesso non riconoscerebbe. Ma smettiamola però di considerare gli errori come capi di imputazione e mandate al Golgota. Non so dove andrà il sistema, personalmente provo una profonda irritazione perché il modello di universitas, cioè di comunità autonormantesi, che proprio noi italiani abbiamo inventato e che la nostra costituzione ha recepito, è stato abbandonato agli americani che, anche nei riti formali, lo hanno ripreso e rivitalizzato dando dimostrazione per acta concludentia che funzionava bene. Non potevamo farlo noi?