“3 + 2″. CONVEGNO NAZIONALE A ROMA MARTEDI’ 11 LUGLIO 2006

NUOVI INTERVENTI DI BERNARDINI, DEL PAPA E MARINI
I tanti interventi sul “3 + 2″ da noi diffusi (compresi quelli qui riportati di Bernardini, del Papa e Marini) e le adesioni ‘preventive’ già ricevute a partecipare ad un confronto ‘diretto’, mostrano che ci sono le condizioni per elaborare un contributo ragionato e ‘unitario’ nell’ambito di un Convegno nazionale. Un contributo alla necessaria verifica-monitoraggio della riforma didattica che il Ministero dovrebbe al
più presto avviare, coinvolgendo tutto il mondo universitario, compresi gli
studenti.
In questa direzione, invitiamo tutti coloro che hanno partecipato al
confronto on-line e tutti gli interessati a partecipare al Convegno che si terrà a Roma martedì 11 luglio 2006 (mattina e pomeriggio).
Invitiamo coloro che non l’hanno ancora fatto a comunicarci al più presto la loro disponibilità a partecipare di persona al Convegno in modo da consentirci di meglio organizzarne i lavor

Carlo BERNARDINI (Roma La Sapienza): “Far West”

dall’Unità del 20/06/06:

Far West Università

Carlo Bernardini

Una riforma di buone intenzioni, come quella varata da Luigi Berlinguer e che va sotto il nome di 3+2, ha scatenato una guerra che, a volerla nobilitare, si può chiamare di religione ma più volgarmente somiglia a quella ta agricoltori e allevatori in un unico Far West (l’Università). Veniamo al sodo: Berlinguer constatò (ai tempi suoi, cioè prima che passasse il governo d’occupazione berlusconiano, con le truppe occupanti agli ordini del generale Brichetto) che l’età dei neolaureati italiani era, in media, molto alta, oltre i 27 anni; che le università avevano un numero enorme di studenti fuori corso magari impegnati per anni in una tesi di
ricerca, che il numero degli abbandoni degli studenti era assai elevato, in
media il 70% degli iscritti iniziali. Aggiungendo a tutto ciò che l’università italiana era diversa dalle altre, europee in particolare, e che spesso le nostre poche lauree andate in porto equivalevano a dottorati stranieri, Berlinguer pensò bene di adoperarsi perché il nostro sistema producesse più laureati e meno frustrati, agendo sula natura stessa dei titoli, sull’ordine degli studi e sulla complessità dei corsi. Nacque la formula 3 + 2, che richiedeva che gli universitari si rimboccassero le maniche e concepissero e organizzassero i loro insegnamenti in modo
efficiente. Alcune Facoltà lo fecero (gli agricoltori) perché abituate a forme cooperative di gestione dei corsi di laurea: l’autonomia voluta già da Ruberti lasciava ampi margini di proposta, si trattava perciò solo di farla, quella proposta. Naturalmente, tutti gli «agricoltori» sapevano benissimo che si sarebbe trattato di proposte sperimentali e che nessuno avrebbe vietato di ottimizzarle nel tempo, con la pratica. Gli «allevatori», invece, avevano da pascolare ciascuno la propria mandria e quindi scarsa attitudine a collaborare. Non capirono il problema:
incominciarono a mugugnare sempre più intensamente, sinché alcuni opinionisti dei giornali, tra cui il prof. Pietro Citati su Repubblica (che, a rigore, allevatore professionalmente non è, e tanto meno agricoltore) le sparò grosse, scrivendo che solo gli allevatori appartengono all’élite dirigenziale, che gli agricoltori sono solo tecnici, che gli animali devono pascolare liberamente su territori liberi e vasti,
che se ci sono animali in eccesso meglio destinarli a lavori pesanti che non continuare ad allevarli per incrementare le greggi. Fuor di metafora, Citati scrisse (e non era la prima volta) che solo gli umanisti potevano aspirare alla dirigenza, che gli studenti in eccesso potevano fare i fruttivendoli o i falegnami e altre sublimi prospettive di questo tenore. Siamo al punto, registrato dal frenetico scambio in rete attraverso l’associazione Andu di docenti universitari, che le posizioni si sono
radicate e appaiono inconciliabili. Il sistema delle abitudini e degli stili di vita di agricoltori e allevatori è profondamente diverso; anche le offerte formative lo sono e nessuno oserebbe gridare che quella degli altri è inaccettabile. Eppure è così: se il contrasto non scoppia, il bubbone infetterà tutto il sistema: Questo è un caso di conflitto in cui manca una buona ideologia di riferimento, dalla parte dei giovani, con interrogativi di questo tipo:
1 – Una comunità nazionale deve o non deve aspirare ad avere un sistema pubblico di istruzione che raggiunga il maggior numero possibile di giovani?
2 – La cultura consiste forse soprattutto in forme di erudizione o in capacità operative?
3 – Perché preferire una straziante e inutile tesi di 300÷500 pagine, confezionata in più di un anno, a una dissertazione agile e concettosa di 30 o 40 pagine costruita in 3 o 4 mesi con una piccola ricerca personale?
4 – Perché preferire ciò che si faceva in 4 anni a ciò che si può fare in 3+2=5 anni, senza preoccuparsi anche di eventuali impieghi dei laureati nei primi 3 anni?
Penso che un motivo forte per avere gente giovane con un titolo valido sia quello di aprire gli occhi sul degrado a cui conducono le politiche della formazione che abbiamo appena superato con la caduta del governo Berlusconi. Ma, nelle condizioni al contorno a cui siamo tornati, i risultati dipendono solo dall’impegno e dalle idee che sappiamo metterci noi docenti.

Daniele MARINI (Milano Statale): “I veri crediti”

From: Daniele Marini (Università di Milano)
Subject: Re: “3+2″: due interventi. Convegno l’11.7?
Date: Sat, 17 Jun 2006 10:38:59 +0200
To: ANDU <anduesec@tin.it>

Con preghiera di diffusione, commento sull’intervento di Alessandra
Ciattini (v. nota).

E’ errato definire il credito didattico come ” … quantità di apprendimento in un determinato settore disciplinare accumulata da uno studente.”

Per una corretta definizione dei crediti didattici si puo’ fare riferimento a una breve presentazione da me curata per il CUN nel 1998, che si puo’ consultare in questo sito: http://homes.dico.unimi.it/~marini/CUN/CREDITI/ Nell’ultima pagina ci sono riferimenti bibliografici a documenti uffuciali che descrivono il sistema ECTS (European Credit Transfer System). All’epoca consideravo con un certo entusiasmo l’introduzione dei crediti, ma onestamente mi sono pentito e citerei il commento di Fantozzi alla “Corazzata Potemkin” per qualificarli in modo sintetico. Un giudizio piu’ preciso porta pero’ a rilevare che l’opinione di Alessandra Ciattini e’ assai diffusa ed e’ forse la causa del fallimento dei crediti nel sistema universitario italiano. Questo punto di vista ha portato gli stessi studenti a considerarli con un atteggiamento rivendicativo e, direi, “sindacale”. Ha anche portato i docenti e le facolta’ a perdere di vista la funzione essenziale che
era quella di facilitare la mobilita’ degli studenti tra atenei e corsi di studio, sia italiani sia europei.
Ben venga un dibattito sul sistema dei crediti per rimetterli nella giusta prospettiva. In assenza di cio’ meglio sarebbe eliminarli.

Daniele Marini


Nota. Per il testo dell’intervento di Alessandra Ciattini:
http://www.orizzontescuola.it/article11016.html

Carlo DEL PAPA (Udine): “dare a Cesare …”

Vorrei provare a rispondere alla collega Ciattini di Roma, con la quale parzialmente dissento, per esempio quando dice: “A me sembra evidente che la nozione di CFU comporti la subordinazione dell’istituzione universitaria al mercato, da cui deriva inevitabilmente lo stravolgimento della funzione tradizionale dell’università,.” e più in là: “Lo stravolgimento si sta già concretando in quelle trasformazioni, che stanno sotto i nostri occhi: l’università non deve essere più
un’istituzione dedita alla ricerca di base e di lungo periodo,.” Certo che l’Università deve rimanere il posto in cui si fa la ricerca di base, ma questo non è in contraddizione con la richiesta che essa sia anche un luogo in cui si formino i giovani, né lo è mai stato. I compiti dell’Università sono molteplici: la ricerca di base, quella applicata e l’insegnamento. Nel formare i giovani dobbiamo sia formare quelli che lavoreranno all’esterno dell’Università (Industria, ma anche, scuola, banche, dirigenza dello stato e burocrazia, libere professioni ecc.), oltre
a quelli che lavoreranno nella docenza e nella ricerca. Se è giusto pretendere di sapere cosa sia e come si formi un buon ricercatore/docente, perché dobbiamo pretendere di sapere cosa sia un buon ingegnere che lavori nell’industria dell’auto o in quella elettronica? Facciamocelo dire così, pur senza rinunziare a dire la nostra, e accettiamo quello che viene fuori dalla discussione con il resto della società civile, economica e politica, che certo ha qualcosa da dire su tale soggetto. Se gli piacciono i CFU, che se li tengano. In questo modo non potremo essere più accusati di essere “autoreferenziali” e ci mostreremo più democratici (ché anche di questo si tratta). Se errori si faranno, saranno gli errori di tutta la società. E’ vero tuttavia che la formazione dei ricercatori e la ricerca sono affari
nostri: qui abbiamo tutto il diritto di essere “autoreferenziali”. Il mercato del lavoro qui è il nostro mercato e sappiamo noi cosa va fatto. Qui non bisogna accettare compromessi. In somma, penso che sia giusto dare a Cesare quello che è di Cesare, ma anche prenderci quello che è nostro. Certo occorre fare in modo che in un corso strutturato in un certo modo (3+2) ci stia sia la formazione dei ricercatori che quella dei destinati ad altri settori: non mi pare un compito impossibile.
Cordialmente
Carlo del Papa
Ordinario di Fisica Generale
Università di Udine

 

 

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