DDL. Relazione sen. Valditara

Legislatura 16º – 7ª Commissione permanente – Resoconto sommario n. 152 del 09/12/2009

IN SEDE REFERENTE

(1905) Norme in materia di organizzazione delle Università, di personale accademico e reclutamento, nonché delega al Governo per incentivare la qualità e l’efficienza del sistema universitario

(591) GIAMBRONE ed altri. – Modifica dell’articolo 17, comma 96, della legge 15 maggio 1997, n. 127, in materia di disciplina dei professori a contratto

(874) POLI BORTONE. – Disposizioni a favore dei professori universitari incaricati

(970) COMPAGNA ed altri. – Disciplina dei docenti universitari fuori ruolo

(1387) VALDITARA ed altri. – Delega al Governo per la riforma della governance di ateneo ed il riordino del reclutamento dei professori universitari di prima e seconda fascia e dei ricercatori

(1579) Mariapia GARAVAGLIA ed altri. – Interventi per il rilancio e la riorganizzazione delle università

(Esame congiunto e rinvio)

 

Riferisce alla Commissione il relatore VALDITARA (PdL), il quale osserva anzitutto come l’esame in Parlamento dei disegni di legge in titolo dovrebbe essere l’occasione per una presa d’atto, da parte della classe politica, della centralità della ricerca e dell’istruzione superiore per lo sviluppo del Paese, nonostante ciò non rientri nella tradizione politica e culturale italiana, atteso che gli ultimi 40 anni di storia repubblicana non vanno esattamente in questo senso.

Del resto, prosegue, l’università è tanto più importante in quanto, se negli anni Settanta il 70 per cento delle innovazioni passava attraverso le imprese, oggi oltre il 50 per cento si realizza all’interno delle università e dei centri pubblici di ricerca.

A titolo esemplificativo, egli rammenta che lo stesso presidente Obama ha recentemente avuto modo di sottolineare che il primato americano è dovuto al fatto che gli Usa hanno sempre concepito la ricerca come una priorità, dedicandole più di ogni altro Paese attenzione e investimenti, tanto che le università statunitensi sono al vertice di tutte le classifiche internazionali. Non diversamente, il primato tedesco tra la fine dell’Ottocento e la seconda guerra mondiale non fu dovuto solo alle materie prime, le quali sono presenti anche in molti Paesi in via di sviluppo i quali soffrono tuttavia di drammatici problemi di crescita. La forza del sistema produttivo tedesco ha avuto invece uno strumento eccezionale innanzitutto nelle università. Quanto alla Cina, il dato qualificante non sta nella competitività delle condizioni produttive, che nell’arco di alcuni anni è destinata a diminuire, bensì nella moltiplicazione di sedi universitarie che, per capacità di innovazione e qualità, sfidano ormai i migliori atenei occidentali.

Al fine di comprendere quale tipo di riforma serva al nostro Paese, egli invita dunque a partire innanzitutto da una valutazione dei risultati prodotti dal sistema attuale.

L’Italia è quarta per produzione scientifica tra tutti i Paesi europei, rapporto che è relativamente proporzionato al numero dei professori e dei ricercatori. La Germania ha invero una produzione scientifica doppia, ma ha anche un numero quasi doppio di ricercatori e professori. L’Italia è quindi più produttiva della Spagna, mentre la Francia e la Gran Bretagna ottengono risultati migliori, anche in termini relativi. Risultati ancora migliori ottengono però Svezia, Olanda e Svizzera, se non si considera il numero assoluto di pubblicazioni, bensì il rapporto fra numero delle pubblicazioni e numero di ricercatori.

Andando a verificare l’impatto scientifico, che rappresenta indubbiamente il dato più importante, si riscontra peraltro non solo che l’Italia è ben oltre la media, ma anche che le citazioni dei lavori dei nostri ricercatori sulle principali riviste scientifiche sono più numerose rispetto a quelle dei ricercatori francesi. Né corrisponde al vero che in tutti i ranking internazionali le nostre università ottengano piazzamenti deludenti: esse sono senz’altro penalizzate dallo Shangai e dal Times, ma sono ben quotate secondo il Leiden e il Taiwan. Ciò accade perché il Taiwan e il Leiden sono basati innanzitutto sulla qualità della ricerca, mentre lo Shangai e il Times prendono in considerazione indicatori in cui l’Italia è realmente agli ultimi posti, quali l’internazionalizzazione di studenti e docenti, nonché il rapporto fra professori e studenti. Del resto, anche l’allegato III al Documento di programmazione economico-finanziaria del luglio scorso conferma che il numero di professori e ricercatori italiani è inferiore alla media Ocse. Proprio dal Times e dallo Shangai risulta confermato tuttavia che le università italiane hanno un impact factor superiore a quello della Francia e una reputazione della comunità scientifica superiore a quella degli atenei tedeschi, che hanno peraltro punte di assoluta eccellenza assenti in Italia. Senz’altro notevole è invece la differenza rispetto ai modelli americano e inglese, che scontano però anche, a proprio favore, il veicolo linguistico.

Piuttosto, l’Italia risulta ben al di sotto della media internazionale quanto a capacità di realizzare promozione sociale, a causa dei modesti investimenti in diritto allo studio e della inadeguatezza delle strutture per la didattica.

Il disegno di legge del Governo n. 1905 riprende dunque in modo complessivamente coerente buona parte delle misure già introdotte con successo nei sistemi universitari dei principali Paesi Ocse.

Ad iniziare dal Regno Unito di Margaret Thatcher, e poi negli ultimi dieci anni in molti altri Paesi europei, all’estero vi è stata infatti una modernizzazione dei sistemi universitari alla luce di due principi ormai ben consolidati: autonomia e responsabilità. Tra i meccanismi introdotti, il relatore sottolinea la centralità della valutazione dei risultati delle unità di ricerca e di didattica, ossia dei dipartimenti; l’attribuzione delle risorse alle singole università con criteri di premialità meritocratica; l’adozione di strumenti contrattuali per incentivare i docenti ed i ricercatori più meritevoli; la semplificazione della governance con il contestuale rafforzamento dei poteri del vertice esecutivo; il miglioramento dei processi decisionali, con il superamento di eccessiva collegialità, consociativismo e autoreferenzialità; una minor rigidità in ingresso della carriera universitaria.

Dopo aver riferito che, per omogeneità di materia, al disegno di legge n. 1905 sono abbinati anche i disegni di legge nn. 1387 e 1579, rispettivamente a prima firma sua e della senatrice Mariapia Garavaglia, che hanno impianto e contenuto simili a quello governativo, nonché il n. 591 del senatore Giambrone sui professori a contratto, il n. 874 della senatrice Poli Bortone sui professori universitari incaricati, e il n. 970 del senatore Compagna sui fuori ruolo, egli passa ad illustrare analiticamente i punti qualificanti della proposta governativa, anticipando che segnalerà le parti che ritiene debbano formare oggetto di modifica, mentre sulle restanti è implicito il suo giudizio positivo.

Con riferimento all’articolo 1, secondo il quale il sistema universitario ha il compito di combinare in modo organico ricerca e didattica per il progresso culturale, civile, economico della Repubblica, osserva che sarebbe forse opportuno un riferimento agli studenti come destinatari di una formazione di qualità, attesa la centralità della persona oltre che della comunità statale. Inoltre, pur convenendo che le università sono sedi di libera formazione, suggerisce di aggiungere “nell’ambito dei propri ordinamenti”; infine, reputa necessario precisare che esse sono strumento anche di elaborazione di conoscenza, non solo di circolazione. Passando al comma 2, che individua in autonomia e responsabilità i principi cardine della riforma, giudica opportuno esplicitare che la sperimentazione ivi prevista di diversi modelli organizzativi si può estendere anche al reclutamento del personale e allo stesso stato giuridico.

Dopo aver accennato al contenuto dei restanti commi dell’articolo 1, il relatore si sofferma sull’articolo 2, che definisce gli organi di ateneo (rettore, consiglio di amministrazione, senato accademico, collegio dei revisori dei conti, nucleo di valutazione), precisando che le università statali hanno sei mesi per adeguare i propri statuti a tali disposizioni.

La lettera a) del comma 2 specifica le attribuzioni del rettore, mentre la lettera b) ne prevede le modalità di elezione. Al riguardo, ritiene peraltro che eccessive precisazioni non siano coerenti con il sistema elettivo, salvo che non si intenda restringere l’eleggibilità ad un numero limitato di soggetti, secondo un modello a suo avviso difficilmente attuabile. Giudica altresì eccessivamente burocratica e centralista la procedura di nomina del rettore con decreto del Presidente della Repubblica.

La lettera c) fissa in otto anni la durata massima in carica del rettore (sei nel caso di mandato unico).

La lettera d) individua i compiti del senato accademico. In proposito, il relatore rileva che a tale organo è attribuito un ruolo troppo marginale. Suggerisce pertanto che esso possa concorrere alla approvazione del conto consuntivo, nonché esprimere un parere necessario, ancorché non vincolante, non solo sul documento di programmazione strategica, ma anche sul bilancio di previsione.

Con riguardo alla costituzione di tale organo, disciplinata alla lettera e), egli lamenta la mancanza di una rappresentanza di secondo grado. Reputa invece opportuno consentire una rappresentanza dei responsabili delle unità organizzative (dipartimenti e facoltà), onde non determinarne la delegittimazione. Deplora altresì l’assenza di raccordo con le strutture di base.

Dopo aver dato conto della lettera f), relativa alle funzioni del consiglio di amministrazione, il relatore illustra la lettera g), che ne disciplina la composizione. In proposito, ribadisce che la fissazione di numerosi vincoli contrasta con il carattere elettivo dell’organo e sollecita la previsione anche di una rappresentanza dei docenti, sul modello dei principali Paesi Ocse. E’ inoltre disposto, prosegue il relatore, che almeno il 40 per cento dei consiglieri di amministrazione non appartenga ai ruoli dell’università quanto meno da tre anni. Al riguardo, precisa peraltro che già attualmente molte università prevedono nei loro statuti membri esterni, i quali tuttavia raramente partecipano alle sedute, creando spesso problemi di numero legale. Giudica dunque i membri esterni una opportunità importante purché rappresentino finanziatori o particolari competenze esterne; altrimenti, sottolinea, rischiano di essere solo portatori di microinteressi non funzionali alle esigenze di sviluppo dell’università. In ogni caso, condivide che la scelta dei componenti esterni sia lasciata ai singoli atenei, abbandonando una impostazione originaria che prevedeva la indicazione esplicita di rappresentanze istituzionali esterne. Quanto al presidente, la medesima lettera g) stabilisce che esso sia eletto tra i componenti del consiglio di amministrazione e quindi possa non coincidere con il rettore. In proposito, osserva che un presidente interno ma diverso dal rettore rischia di rappresentare un antagonista di quest’ultimo, soprattutto se espressione della minoranza sconfitta, con il rischio di una paralisi gestionale. Il presidente diverso dal rettore ha invece senso, a suo giudizio, se è esterno e rappresenta investitori o particolari competenze. Suggerisce peraltro di lasciare le università libere di stabilire se il presidente possa essere diverso dal rettore ovvero se debba coincidere con esso, sottolineando comunque come l’incompatibilità fra presidente del consiglio di amministrazione e rettore possa bloccare l’attività dell’ateneo. Anche in questo caso, giudica peraltro eccessivamente burocratiche le modalità di nomina con decreto del Presidente della Repubblica.

Il relatore dà poi conto della lettera h) sulla durata in carica dei consiglieri di amministrazione, della lettera i) sulla figura del direttore generale, che sostituisce quella del direttore amministrativo, nonché della lettera l) sui compiti del predetto direttore generale.

Passando alla lettera m), sulla composizione del collegio dei revisori dei conti, egli dissente dall’attribuzione alle università del compito di indicare un membro effettivo ed uno supplente tra dirigenti e funzionari del Ministero. Atteso che anche un altro membro del collegio è designato dalle università, gli atenei finirebbero infatti per potersi scegliere la maggioranza nel collegio, indebolendo la sua funzione di controllo terzo, e per di più avrebbero un indebito potere contrattuale nei confronti dei dirigenti ministeriali. Suggerisce quindi che due revisori siano nominati direttamente dal Ministero.

Dopo aver riferito sulle lettere n) ed o), relative ai nuclei di valutazione, egli pone poi l’accento sul divieto per i componenti il senato e il consiglio di amministrazione di ricoprire altre cariche accademiche ad eccezione del rettore, sancito dalla lettera p). A tale riguardo, giudica inopportuno il divieto per il senato, sollecitando invece al suo interno una rappresentanza dei dipartimenti o delle facoltà. Quanto al divieto di ricoprire incarichi politici e cariche istituzionali in altre università, propone di specificare che il divieto si applica alle università italiane, atteso che sarebbe un arricchimento se un membro del consiglio di amministrazione o del senato, o il rettore medesimo, rivestissero cariche in università straniere.

La lettera q) impone infine l’attuazione dei principi di trasparenza dell’attività amministrativa e di accessibilità delle informazioni relative all’ateneo, già fissato, in modo cogente e concreto, con un emendamento approvato in Senato al decreto-legge n. 180 del 2008.

Passando al comma 3, che assegna agli atenei un termine di sei mesi per modificare anche l’organizzazione interna, il relatore registra l’eccentricità dell’estensione di tale obbligo alle università non statali, giustamente non contemplate dall’articolo 2, comma 2, e che quindi dovrebbero essere escluse anche in questo caso.Nell’illustrare analiticamente l’articolazione interna prevista, egli consiglia peraltro una semplificazione in ordine al rapporto fra facoltà e numero di professori e ricercatori, sancito alla lettera d), ipotizzando un numero massimo di 12 facoltà per ateneo. Registra altresì un errore terminologico alla lettera e), laddove richiama le funzioni di cui alle lettere a), b) e c), mentre la lettera b) non attiene allo svolgimento di funzioni. A proposito dell’organo deliberante delle facoltà, la cui istituzione è contemplata alla lettera f), pone in luce che se la facoltà non ha solo funzioni di coordinamento, ma anche poteri sostanziali, sarebbe opportuno che detti organi deliberanti tenessero conto della rilevanza dei singoli dipartimenti. Quanto alla istituzione in ciascun dipartimento di una commissione paritetica docenti-studenti volta ad assicurare la qualità della didattica, di cui alla lettera g), egli la giudica inutile laddove esistano le facoltà, che già svolgono siffatta funzione con la partecipazione di rappresentanze studentesche. Reputa inoltre superfluo ripetere, alla lettera h), la rappresentanza elettiva degli studenti negli organi già citati. Inoltre, rileva che la lettera l) del comma 2, a cui si fa rinvio fra quelle che prevedono organi in cui devono essere rappresentati gli studenti, è relativa invece alla figura del direttore generale.

Dopo aver dato conto del comma 4, che eccettua gli istituti a ordinamento speciale dall’osservanza di alcune disposizioni, il relatore si sofferma sul comma 5, che impone agli atenei l’adozione di un codice etico, sottolineando che sarebbe più appropriato prevedere un codice deontologico.

In ordine al comma 6, secondo cui in sede di prima applicazione lo statuto modificato viene adottato con delibere del senato accademico e del consiglio di amministrazione, paventa le possibili contrapposizioni paralizzanti fra i due organi e suggerisce di attribuire la competenza ad un unico organo, tanto più che allo stato essi sono espressione di analoghe rappresentanze.

Nell’accennare brevemente ai commi 7, 8, 9 e 10, egli registra poi che, ai sensi del comma 11, ai fini della rieleggibilità dei rettori, del senato accademico e del consiglio di amministrazione, si computa il periodo già maturato. Stigmatizza tuttavia che per il senato non era prevista una non rieleggibilità.

Illustra indi l’articolo 3, sulla federazione e fusione di atenei.

Passando all’articolo 4, che istituisce il Fondo per il merito, consiglia di limitare i premi di studio ai non abbienti, modulando magari le soglie di accesso in modo da favorire davvero i capaci e meritevoli ancorché privi di mezzi. Paventa altresì che la garanzia dello Stato per i prestiti d’onore possa non essere coperta. Quanto alle modalità di alimentazione del Fondo, reputa inadeguata la previsione come una mera eventualità del finanziamento pubblico. In questo modo, il Fondo rischia infatti di non entrare immediatamente in funzione o comunque di essere avviato senza adeguati finanziamenti. Considera poi paradossale che fra le risorse destinate ad alimentare il Fondo vi siano i contributi degli studenti. Riconosce peraltro che, se fosse previsto un trasferimento pubblico obbligatorio, la norma sarebbe priva di copertura finanziaria.

Con riguardo all’articolo 5, che delega il Governo ad introdurre misure per favorire la qualità e l’efficienza del sistema universitario, reputa non corretto che nella delega rientri la valutazione dei risultati conseguiti dai singoli docenti poiché essa è di competenza dei singoli atenei; anche il decreto istitutivo dell’Agenzia nazionale per la valutazione del sistema universitario e della ricerca (ANVUR), ricorda, limita le sue attribuzioni alla valutazione delle istituzioni universitarie. In ordine ai principi e criteri direttivi fissati dal comma 2 con riferimento all’introduzione di meccanismi premiali, auspica inoltre una riformulazione della lettera b) atteso che il termine “efficienza” presuppone a suo avviso una specificazione. Invita altresì a valutare anche la qualità, oltre all’efficienza, e lamenta che il potenziamento del sistema di autovalutazione di cui alla lettera c) non si articoli in corrispondenti criteri direttivi.

Quanto ai principi e criteri direttivi per la revisione della contabilità, di cui al comma 3, ed in particolare alla lettera d), che impone un programma triennale di riequilibrio della consistenza del personale docente, ricercatore e tecnico-amministrativo, pone in luce che, se in molte sedi quest’ultimo appare senz’altro sovrabbondante, la dotazione di personale docente e ricercatore è inferiore alla media Ocse e risulta dunque inadeguata sul lungo periodo.

Il comma 4 reca poi, prosegue il relatore, principi e criteri direttivi per l’esercizio della delega relativa allo stato giuridico dei docenti e ricercatori. Talvolta tuttavia gli obiettivi sono a suo avviso confusi con i principi e criteri direttivi, mentre anche per la delicatezza della materia sarebbe bene definire nella legge i contenuti essenziali, lasciando poi ad una fonte successiva la loro semplice attuazione. In particolare, egli si sofferma sulla lettera c), che fissa sia per i docenti a tempo pieno che per quelli a tempo definito un eguale impegno complessivo pari a 1.500 ore. Ciò appare al relatore come suscettibile di impugnazione per irragionevolezza. E’ evidente del resto, prosegue, che, corrispondendo l’impegno per chi è a tempo definito a circa otto ore al giorno per cinque giorni la settimana, non si riserva alcuno spazio alle attività libero-professionali, presupposto stesso del collocamento a tempo definito. Le 1.500 ore comprendono poi non solo le attività didattiche, ma anche quelle di ricerca. Giudica tuttavia impossibile una quantificazione seria di queste ultime, risultando del tutto fantasiosi o comunque arbitrari criteri basati sulle pubblicazioni. Anche all’estero, mentre la didattica è quantificata in molti Paesi Ocse, non vi è Paese al mondo che quantifichi le ore dedicate alla ricerca. In questo campo, ciò che conta sono i risultati ed è questo l’oggetto della valutazione che in alcuni Paesi viene effettuata. Nelle 1.500 ore sono poi compresi anche i compiti preparatori e di verifica connessi all’insegnamento, nonché il tempo destinato allo studio personale, ma è evidente ancora una volta l’arbitrarietà della definizione lasciata inevitabilmente ad una autocertificazione soggettiva. Risulta infine a suo avviso oscura la previsione di una “quantificazione dell’impegno complessivo”, che lascerebbe intendere una specificazione oraria ulteriore delle varie attività elencate.

Più in generale, il relatore ritiene che il limite di 1.500 ore introdurrebbe una disparità di trattamento economico rispetto ai docenti di scuola secondaria, che potrebbe essere foriera di ricorsi. A fronte invero di uno stipendio di insegnante che corrisponde all’incirca a quello di un ricercatore ovvero di un associato a inizio carriera, si richiederebbe infatti per ricercatori e professori universitari un impegno orario pari a quasi due volte e mezzo. La norma, ribadisce, rischia dunque di risultare incostituzionale per irragionevolezza. Va osservato infine che, nella bozza iniziale del disegno di legge, l’impegno di 1.500 ore era qualificato come “figurativo”, essendo collegato alla rendicontazione dei progetti di ricerca cofinanziati. Se si vuole mantenere il suddetto impegno orario, sarebbe quindi quanto meno auspicabile il ripristino della definizione originaria. Giudica invece corretta la quantificazione in 350 ore e 250 ore dell’impegno didattico rispettivamente per il tempo pieno e definito.

Quanto alla lettera d), relativa alla disciplina delle attività di verifica dello svolgimento dei compiti didattici, osserva che si tratta di un obiettivo e non di un criterio direttivo. Giudica comunque senz’altro auspicabile l’introduzione di forme di controllo da parte delle singole università sull’effettivo svolgimento delle lezioni e dell’attività di ricevimento e di assistenza agli studenti. Lamenta tuttavia che essa non sia accompagnata dalla previsione di idonee misure sanzionatorie per le ipotesi di inottemperanza da parte del singolo docente. Per stroncare forme di inaccettabile mal costume, propone al contrario che, nel caso di mancata osservanza dei doveri didattici, e in assenza di una idonea giustificazione, siano applicate adeguate sanzioni di natura patrimoniale, fino al licenziamento per le fattispecie più gravi. Senza il richiamo a sanzioni, la previsione di forme articolate di controllo sembra infatti a suo avviso una tipica “grida manzoniana” destinata all’esterno più che all’interno dell’accademia. Non condivide invece l’eventuale introduzione di un badge di entrata e di uscita nell’ateneo, che finirebbe per svilire la professionalità del docente e del ricercatore fondata sulla autonomia della ricerca, attribuendogli un ruolo di tipo impiegatizio. Né va dimenticato che mancherebbero strutture adeguate per fronteggiare una presenza fissa di tutti i docenti nei dipartimenti.

In merito alla verifica dell’impegno scientifico, reputa di tutta evidenza che essa debba essere riservata alle singole università, che hanno interesse a stimolarlo atteso che una parte dei finanziamenti è legata alla qualità della produzione scientifica. Anche in questo caso la valutazione dovrebbe incentrarsi a suo avviso più sulla qualità che sulla quantità della produzione medesima. D’altro canto, osserva, se non fosse la singola università a valutare l’impegno scientifico di ciascun docente, si richiederebbe all’ANVUR uno sforzo insostenibile, dovendo essa valutare ogni anno 70.000 persone avvalendosi di un personale assai limitato e con pochi fondi. Già nelle scorse legislature si era del resto affermato in modo bipartisan il principio che l’Agenzia deve valutare le istituzioni accademiche, a iniziare dai dipartimenti, e non le singole persone. Inoltre, qualora la valutazione fosse fatta al di fuori delle singole università, ci sarebbe il rischio di un rallentamento burocratico notevole, con ritardi nella liquidazione degli scatti.

Per altro verso, l’inserimento nelle commissioni di abilitazione, di selezione e promozione, di esame di Stato, nonché negli organi di valutazione di progetti di ricerca, sancito alla lettera d) per i soli professori e ricercatori con valutazione positiva, non può essere il risultato di una valutazione fatta dalle singole università, ma deve essere conseguenza di una credibilità scientifica conseguita dal singolo professore o ricercatore e attestata in modo oggettivo, senza possibilità di discriminazioni. E’ il giudizio della comunità scientifica, non di un singolo valutatore, che deve decidere della adeguatezza scientifica di un possibile commissario di concorso.

La successiva lettera e) demanda al decreto delegato l’individuazione dei casi di incompatibilità e la definizione dei criteri generali per l’assunzione di incarichi anche retribuiti di studio, di insegnamento, di ricerca, di consulenza. E’ evidente, prosegue il relatore, l’illegittimità della disposizione, che rinvia la determinazione di criteri generali. Al riguardo, egli ritiene che debba essere la singola università a stabilire un regime di incompatibilità a seconda delle proprie convenienze, e non in via generale, ma differenziando all’interno di contratti integrativi individuali, e comunque per aree disciplinari, come avviene nei sistemi universitari più avanzati. Sarà poi il docente a scegliere se accettare o meno le condizioni contrattuali offerte, ovvero decidere di cambiare sede.

Con riguardo all’obbligo di una relazione triennale sul complesso delle attività didattiche, di ricerca e gestionali svolte, ai fini fra l’altro della attribuzione dello scatto stipendiale, di cui alla lettera f), egli condivide il principio, anche se reputa che debbano essere le singole università, nell’ambito della loro autonomia e responsabilità, a fissare i criteri di valutazione della complessiva attività svolta, eventualmente differenziando, a seconda delle esigenze locali, il valore da riferirsi alla ricerca piuttosto che alla didattica ovvero all’impegno gestionale.

In ordine alla revisione del trattamento economico dei professori e dei ricercatori già in servizio e di quelli vincitori dei concorsi indetti fino alla data di entrata in vigore della legge, e in particolare alla trasformazione degli scatti da biennali a triennali, disposta dalla lettera i), pur essendo prevista un’invarianza del complessivo trattamento retributivo, egli stigmatizza la perdita economica per docenti e ricercatori legata al ritardo della prestazione, i cui effetti sono ben evidenziati dalla tabella allegata alla relazione tecnica. Per evitare una forma di risparmio a danno del personale docente, che tra l’altro non è contrattualizzato e dunque non gode di periodici rinnovi retributivi, auspica quindi che i risparmi derivanti dalla mancata concessione degli scatti vadano ad incrementare un apposito fondo universitario per la incentivazione.

Il relatore suggerisce altresì di introdurre alla lettera i) la previsione di misure incentivanti integrative, sul modello di quanto avviene nei Paesi anglosassoni in cui la retribuzione dei docenti è fissata per contratto, venendo commisurata ai risultati conseguiti e all’interesse dell’ateneo nei confronti dei singoli docenti. In proposito, rammenta che una misura di questo tipo era già prevista all’articolo 1, comma 16, della legge n. 230 del 2005, ma necessita di un fondo ad hoc, che la renda praticabile.

Il comma 5 riprende infine un emendamento già presentato in altra sede, che favorisce fra l’altro la sperimentazione da parte delle regioni di nuovi modelli di gestione ed erogazione degli interventi in materia di diritto allo studio. Invita tuttavia a non cadere nel pregiudizio demagogico secondo cui il semplice ingresso nella istituzione formativa è necessariamente per tutti una garanzia di successo, che oltre tutto appare in contrasto con i principi della Costituzione.

Il relatore accenna poi all’articolo 6, che opportunamente ridimensiona i crediti che possono essere riconosciuti agli studenti per attività professionali, e all’articolo 7, che dispone una revisione dei settori scientifico-disciplinari sulla base del criterio dell’afferenza di almeno 50 professori ordinari.

L’articolo 8, prosegue, istituisce l’abilitazione nazionale di durata quadriennale per le funzioni di professore ordinario ed associato. In proposito, evidenzia tuttavia che la distinzione fra le due fasce non può essere per funzioni, dal momento che esse sono analoghe. Invita quindi a fare riferimento alla legge n. 382 del 1980, ovvero a specificare la differenza dei requisiti (idoneità per la seconda fascia; piena maturità scientifica per la prima fascia).

Con riferimento al contenuto dei regolamenti con cui entro novanta giorni saranno definite le modalità di espletamento delle procedure concorsuali, il relatore propone che l’attribuzione della abilitazione sia fondata non solo sulla valutazione analitica di titoli e pubblicazioni scientifiche, ma anche su una adeguata verifica delle capacità didattiche. Quanto poi alla commissione, ribadisce che essa dovrebbe essere costituita sulla base di una lista formata da candidati che abbiano pubblicazioni scientifiche accettate su riviste internazionalmente accreditate o edite in collane universitarie. Ritiene altresì che un’unica commissione che dura in carica due anni ed è competente per le abilitazioni di prima e seconda fascia rischia di concentrare in sé troppo potere. Sull’attribuzione di un titolo preferenziale nei contratti di insegnamento

a coloro che siano in possesso della abilitazione, consiglia di estendere tale preferenza anche a chi è già in servizio.

Passando all’articolo 9, che disciplina le procedure di reclutamento, auspica anzitutto che la legittimazione a partecipare ai bandi di cui alla lettera b) sia articolata diversamente, atteso che il successivo articolo 15, comma 3, rimedia ad una palese dimenticanza prevedendo la possibilità di partecipare alle suddette procedure anche per i professori attualmente in servizio. Alla lettera c), lamenta che non sia disciplinata l’ipotesi in cui non sia stata costituita la facoltà e suggerisce di sostituire il riferimento alla facoltà con quello al dipartimento. In ordine alla previsione di una lezione pubblica, di cui alla lettera d), osserva che sarebbe più opportuno che la valutazione della idoneità didattica fosse svolta al momento dell’abilitazione. Giudica inoltre estremamente complessa e farraginosa la procedura per la proposta di chiamata, prefigurata dalla lettera d). Nel dichiarare di non comprendere per quale motivo debbano intervenire nella chiamata i soggetti che compongono l’organo deliberante della facoltà, reputa fuori sistema che alle chiamate degli ordinari partecipino anche i professori di seconda fascia e che alle chiamate di professori e ricercatori partecipino rappresentanti degli studenti. Sollecita quindi una decisione assunta dalla maggioranza assoluta dei componenti il dipartimento, su proposta dei professori del settore scientifico-disciplinare e con delibera finale del consiglio di amministrazione. Le università potrebbero poi stabilire forme di consultazione della comunità scientifica sull’adeguatezza dei candidati proposti.

Più in generale, egli ritiene che questa procedura rischi di penalizzare la assunzione dei docenti più giovani e neo abilitati ponendoli in competizione con docenti già in servizio sulla base di una valutazione comparativa dei titoli. Invita quindi a distinguere le procedure di assunzione in servizio da quelle di trasferimento. In questo ultimo caso, sarebbe più idonea la chiamata diretta, che avrebbe il vantaggio di evitare il rischio di ricorsi paralizzanti. Chiede altresì chiarimenti sulla scelta di prevedere, al comma 5, la chiamata diretta per studiosi impegnati all’estero o per ricercatori a contratto e non per professori già in servizio presso altre università italiane. Fra l’altro, per ragioni di spesa, le università hanno maggiore convenienza ad assumere neo abilitati che a chiamare per trasferimento. Dunque, la chiamata per trasferimento avverrebbe solo per situazioni di particolare rilievo e favorirebbe la mobilità fra sedi. Né va dimenticato che, essendo i commissari normalmente già presenti nel dipartimento, il loro giudizio verrebbe comunque considerato. In questo caso, auspica peraltro un limite percentuale alle chiamate per trasferimento.

Con riferimento infine al comma 5, avanza l’ipotesi di sopprimere la chiamata per chiara fama, sussistendo già la figura del professore a contratto, tanto più che in passato essa ha dato luogo a trattamenti di favore non adeguatamente giustificati.

Dopo aver dato conto dell’articolo 10, sugli assegni di ricerca, il relatore riferisce quindi sull’articolo 11, in base al quale le università possono stipulare contratti per attività di insegnamento con esperti di alta qualificazione in possesso di un significativo curriculum scientifico o professionale. In proposito, egli ritiene che la palese inadeguatezza del curriculum potrebbe dar luogo all’annullamento del contratto su istanza di un componente il nucleo di valutazione, onde evitare che l’affidamento di incarichi a soggetti sprovvisti di idoneo curriculum risulti priva di sanzioni. Manifesta peraltro perplessità sul successivo comma 2, di cui dichiara di non comprendere appieno la differenza rispetto al comma 1, se non che la seconda ipotesi contrattuale sembrerebbe riferita ad ambiti didattici più specifici. Invita quindi ad unificare le due ipotesi.

L’articolo 12, prosegue il relatore, porta avanti il disegno avviato a suo tempo dalla legge n. 230 del 2005, con riguardo alla eliminazione delle figure di ricercatore a tempo indeterminato, da sostituirsi con ricercatori titolari di contratti a tempo determinato. I compiti attribuiti a questa nuova figura di ricercatore sono di ricerca (non quantificata) e di didattica (fissata in un ammontare di 350 ore annue). Al riguardo, egli valuta troppo complicata la possibilità di stipulare nuovi contratti con altre università. A suo avviso, una volta fissato il periodo massimo di dieci anni per la durata di rapporti a tempo determinato, dovrebbe essere semplicemente consentito di partecipare a procedure di selezione per il tempo mancante al raggiungimento del decennio.

In merito al trattamento economico dei ricercatori, il relatore esprime compiacimento per il tentativo di rendere più competitiva la retribuzione di inizio carriera, che attualmente è in assoluto la più bassa fra i principali Paesi europei, pari a circa il 60 per cento di quella di un ricercatore tedesco. Tale scelta, quantificata in 11 milioni di euro, è per il momento coperta con corrispondente riduzione per gli anni 2010 e 2011 dell’autorizzazione di spesa di cui all’articolo 5, comma 1, della legge 19 ottobre 1999, n. 370. Ritiene tuttavia che a regime occorrerà prevedere un incremento corrispondente del FFO onde evitare che ad una maggiore retribuzione corrisponda un minor numero di ricercatori assunti in servizio, ancorché a tempo determinato.

Quanto alla procedura di selezione nazionale dei vincitori, disciplinata al comma 9, egli la valuta troppo burocratica e potenzialmente poco trasparente, in quanto presuppone una commissione composta da “eminenti studiosi” designati dal Ministro su proposta dell’ANVUR, che si avvalgono a loro volta, per la valutazione dei titoli e delle pubblicazioni scientifiche e dei programmi di ricerca, di esperti revisori di elevata qualificazione scientifica, fra l’altro senza oneri per la finanza pubblica. Egli auspica invece la formazione di commissioni composte, per ogni settore scientifico-disciplinare, estraendo a sorte tre valutatori all’interno di liste di professori ordinari e associati che abbiano continuità di pubblicazioni scientifiche negli ultimi cinque anni. Inoltre, invita a non prescindere da una valutazione delle abilità didattiche e della preparazione complessiva del candidato, atteso che il ricercatore a tempo determinato potrebbe essere destinatario di chiamata diretta su un posto da associato.

Il relatore accenna altresì all’articolo 13, secondo cui la concessione della opzione per la permanenza in servizio per un ulteriore biennio è subordinata alla sussistenza di adeguate risorse finanziarie nel bilancio dell’ateneo, e all’articolo 14, sullo svolgimento di attività finalizzate alla diffusione della lingua e della cultura di Paesi stranieri.

Illustrando infine le norme transitorie e finali recate dall’articolo 15, il relatore si sofferma in particolare sul comma 1, secondo cui, a far data dalla entrata in vigore della legge, per la copertura di posti da professore ovvero da ricercatore o assegnista di ricerca, le università possono avviare esclusivamente le nuove procedure di concorso. Non va tuttavia dimenticato che esse presuppongono le modifiche statutarie e l’adozione di appositi regolamenti, il che rischia di tradursi in un blocco delle chiamate per almeno un anno. Per evitare tale conseguenza nefasta, sarebbe dunque opportuno far data dalla entrata in vigore dei regolamenti di cui all’articolo 9, comma 2, e comunque non prima del termine delle procedure di modifica statutaria.

Avviandosi alla conclusione, egli precisa che le osservazioni svolte riguardano elementi particolari del disegno di legge, non già i suoi elementi strutturali. Non intaccano quindi il giudizio senz’altro positivo sulla sua complessiva adeguatezza.

D’altro canto, sottolinea, il provvedimento riprende, talvolta quasi alla lettera, passaggi già contenuti nella proposta presentata a febbraio dalla maggioranza e pure in quella depositata a giugno dall’opposizione. Le soluzioni prospettate ricalcano inoltre, nelle loro linee generali, quanto contenuto nel programma elettorale del Pdl, che per molti aspetti non era distante da quello del Pd. E’ piuttosto auspicabile, per consentire alla riforma di esplicare i suoi effetti positivi, che i tagli previsti per il 2010 a danno dell’università vengano drasticamente ridotti: questo è il vero ostacolo che si deve superare.

Nel dichiararsi assolutamente aperto alla discussione, anticipa fin d’ora che intende riservare una seria attenzione alle proposte che verranno avanzate, non solo dalla maggioranza, ma anche dalla opposizione e dalle parti sociali, per arrivare ad un testo che, nel rispetto delle linee portanti qui delineate, sia il più possibile condiviso. In particolare, assicura che non si lascerà condizionare dalle eventuali pressioni di organi di stampa, né di coloro che non siano espressione della sovranità popolare. Ritiene infatti che spetti al Parlamento esprimersi sulla proposta del Governo e manifestare la sua volontà definitiva.

 

Il seguito dell’esame congiunto è rinviato.

 

La seduta termina alle ore 16,15.

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14 anni fa

[…] DDL. Relazione sen. Valditara By ANDU […]

Guido Mula
Guido Mula
15 anni fa

CANCELLAZIONE DEI RICERCATORI, MERITOCRAZIA, FONDI
Guido Mula, Università di Cagliari

Mi pare che il Sen. Valditara, pur criticando il DDL in diversi punti, non colga o non sottolinei in modo adeguato alcuni aspetti rilevanti del DDL. A parte il problema drammatico dei ricercatori universitari, già citato in altri commenti, che si vedono privati di qualunque prospettiva seria di carriera e vengono sostanzialmente estromessi dagli organi di governo, non viene neanche citato il fatto che se si vuole parlar tanto di meritocrazia e premialità delle università il discorso deve necessariamente andare di pari passo con una “meritocrazia” dell’operato ministeriale. Non ha infatti molto senso andare a giudicare l’operato delle università a fronte di un governo che ne soffoca le prerogative e e funzioni essenziali, facendo innanzitutto una continua campagna discriminatoria ma soprattutto riducendo i finanziamenti a lumicino e mantenendo di contro una propria funzionalità assolutamente inefficiente. Basta citare il fatto che il Ministro che chiede tanta efficienza ha lasciato il MIUR sprovvisto del comitato tecnico scientifico per circa un anno, bloccando quindi le attività del ministero per lo stesso tempo, senza parlare poi dell’esperienza quotidiana di ritardi incomprensibili e di finanziamenti dall’ammontare imprevedibile (al ribasso) in ogni tipologia di bando degli ultimo decennio.

Se quindi il Ministero non attua, prima di parlare di meritocrazia altrui, una politica seria di riequilibrio dei fondi di finanziamento ordinario degli atenei (che non coprono attuamente neanche le spese stipendiali nella maggior parte degli atenei!), non si dà regole e tempistiche certe per il bando e la concessione dei finanziamenti di ricerca e didattica, non si mettono in sostanza le università in condizioni di lavorare senza l’incubo costante della propia sopravvivenza, tutto questo parlare sarà un semplice riempirsi la bocca di cose vuote se non dannose.

Concludo sottolineando che se da un lato il Sen. Valditara parla di sottodimensionamento del corpo docente universitario rispetto ai parametri internazionali, il DDL invece parla di un fantomatico “riequilibrio” fatto però senza indicare alcun parametro di riferimento. Scritto così, e alla luce delle esternazioni ministeriali, il “riequilibrio” può solo essere interpretato come una ulteriore arma nelle mani del Ministro per ridurre ulteriormente l’organico delle università soffocandone le capacità di didattica e di ricerca. Le sole conseguenze di queste decisioni saranno danni quasi irrecuperabili per i giovani che affrontano e affronteranno la formazione universitaria e per l’Italia in generale, che perderà sempre più la propria competitività.

Francesco
Francesco
15 anni fa

ESAURIMENTO RICERCATORI E’ PREPENSIONAMENTO
da Francesco Pinto dell’Università di Bari

Dal testo commentato del sen. Valditara non traspare nulla, neanche nelle norme transitorie, a proposito degli attuali ricercatori confermati. Che fine farebbero costoro? Da più parti si dice andrebbero in un ruolo ad esaurimento. Bene, questo vuol dire che, visto anche l’età, un pensionamento anticipato mascherato da una forma impiegatizia. In questo modo moltissimi ricercatori, oggi tutti titolari di insegnamento annuale su base volontaria, viste le prospettive future, potrebbero optare per una “lunga vacanza”. Su questa base legislativa l’Università italiana rischia di portarsi fuori dall’Europa.

Sergio Morra
Sergio Morra
15 anni fa

L’ESAURIMENTO DEI RICERCATORI E’ DISTRUTTIVO
ds Sergio Morra dell’Università di Genova

Il commento più chiaro se l’è già fatto da solo: “Le osservazioni svolte riguardano elementi particolari del disegno di legge, non già i suoi elementi strutturali. Non intaccano quindi il giudizio senz’altro positivo sulla sua complessiva adeguatezza. D’altro canto, il provvedimento riprende, talvolta quasi alla lettera, passaggi già contenuti nella proposta presentata a febbraio dalla maggioranza e pure in quella depositata a giugno dall’opposizione. Le soluzioni prospettate ricalcano inoltre, nelle loro linee generali, quanto contenuto nel programma elettorale del Pdl, che per molti aspetti non era distante da quello del Pd.”
Infatti, proprio così. D’altro lato, il fatto che il relatore designato dalla maggioranza esprima tante critiche, sia pure particolari, al disegno di legge governativo di cui dovrebbe fare l’apologia ci indica che non è affatto scontata una sua rapida e indolore approvazione. L’iter, prevedo, sarà lungo e tortuoso e quindi c’è spazio per ogni tipo di azione, dal lobbysmo parlamentare per chi ne ha la possibilità alle lotte sociali per chi ne ha l’audacia.
E poi c’è almeno un aspetto di rilievo in cui il ddl non riprende affatto “passaggi già contenuti nella proposta presentata a febbraio dalla maggioranza e pure in quella depositata a giugno dall’opposizione”: la soppressione dei concorsi per posti di ruolo di ricercatore. L’originario progetto governativo non arrivava fino a questo punto di distruttività, mentre quello dell’opposizione addirittura prevedeva l’istituzione della terza fascia docente. Si sa che certi illustri esponenti del PD in realtà non vogliono affatto la terza fascia docente e sono ben contenti della messa a esaurimento del ruolo del ricercatore e della sua sostituzione con una nuova figura precaria… Ma la categoria docente ha bevuto cloroformio o, di fronte a una “riforma” dagli effetti così devastanti per i giovani e per il futuro dell’università, saremo finalmente capaci di farci sentire?

paolo manzelli
15 anni fa

GOVERNO E OPPOSIZIONE AVULSI
di Paolo Manzelli

A proposito della Riforma delle Universita’ il governo ed anche la opposizione sembrano di fatto del tutto avulsi dall’avere una capacita di comprendere che nel passaggio tra la societa industriale alla societa della conoscenza KBBE (Knowledge based Bio-Economy) la innovazione produttiva si realizza all’interno delle università e dei centri pubblici e privati di ricerca. La vecchia societa industriale che focalizzava il centro della innovazione nell’ impresa e’ ormai sull’ orlo de fallimento perche’ normalmente l’ impresa persegue ancora logiche di produzione meccanica mentre il futuro dello sviluppo sociale ed economico passa attraverso la concorrenza su la piu ampia applicazione delle scienze della vita. Pertanto il rinnovo di questo paese viene fortemente a dipendere dal rinnovato ruolo della Ricerca nel quadro dello sviluppo sociale ed economico contemporaneo.
a questo proposito Vedi alcuni articoli miei in http://www.edscuola.it/lre.html – paolo manzelli pmanzelli@gmail.com