ALTRI DUE INTERVENTI SUL “3 + 2″

Diffondiamo gli interventi sul “3 + 2″ di Alessandra Ciattini (Roma La Sapienza) e Piersante Sestini (Siena). CONVEGNO l’11 luglio? Rispetto all’ipotesi di un Convegno nazionale sul “3 + 2″ da tenersi  a Roma, la netta maggioranza di coloro che hanno finora comunicato la loro disponibilità a parteciparvi personalmente preferisce, tra quelle ipotizzate, la data di martedì 11 luglio 2006. Invitiamo tutti coloro che sono intervenuti on-line e coloro che sono interessati a comunicarci al più presto la loro disponibilità a partecipare di persona l’11 luglio 2006 a Roma al Convegno in modo da consentirci di decidere se ci sono o meno le condizioni per promuoverlo.

Alessandra CIATTINI (Roma La Sapienza):

Ma a che servono i crediti?

Ho seguito con interesse e partecipazione il dibattito sul 3 + 2, ma sono anche rimasta un po’ delusa. Mi sono chiesta: come mai scienziati e studiosi insigni non si sono posti il problema centrale, che sta alla base dell’introduzione dei CFU? Perché si sono soffermati su aspetti sì importanti, ma non sono andati alla radice del problema? Il perché non lo so e non voglio essere maliziosa, ma desidero
semplicemente dare un piccolo contributo al dibattito svoltosi con il
supporto dell’ANDU.
Come si ricava dai documenti ufficiali, con i quali è stato avviato il cosiddetto “spazio europeo dell’educazione superiore”, i crediti misurano
la quantità di apprendimento in un determinato settore disciplinare accumulata da uno studente. Ma perché è necessario misurare la quantità di apprendimento in un determinato settore disciplinare? La risposta è abbastanza semplice. In un mercato del lavoro, che richiede sempre più flessibilità e mobilità, è necessario che i datori di lavoro siano in grado di misurare la quantità delle conoscenze acquisite dagli individui, che intendono assumere per svolgere un determinato lavoro. In conclusione, il CFU consente di misurare quantitativamente (la qualità sembra non contare) la preparazione di un futuro lavoratore in un certo ambito
indipendentemente dal paese e dall’università, in cui ha accumulato i suoi
crediti.
A me sembra evidente che la nozione di CFU comporti la subordinazione
dell’istituzione universitaria al mercato, da cui deriva inevitabilmente lo
stravolgimento della funzione tradizionale dell’università, che ovviamente
– nonostante i suoi detrattori – non è mai stata chiusa alla società ed alle sue domande. Basti pensare a tutti quei movimenti che sono nati nelle università e che hanno cercato di intervenire su problemi politico-sociali importanti.
Lo stravolgimento si sta già concretando in quelle trasformazioni, che stanno sotto i nostri occhi: l’università non deve essere più un’istituzione dedita alla ricerca di base e di lungo periodo, i cui frutti sicuramente non potranno vedersi nell’immediato futuro; non deve essere più un’istituzione che, grazie alla ricerca sociologica ed umanistica, prefigura addirittura nuove forme di vita sociale. Essa non deve essere più “autoreferenziale” (come dicono i nostri innovatori), ma deve aprirsi al mercato, alle sue esigenze e ai suoi bisogni. Essi dimenticano di dirci che anche il mercato è autoreferenziale; infatti, ha le sue leggi che determinano il successo e l’insuccesso di una determinata strategia economica. Affermare che i crediti svolgono la su menzionata funzione e comportano lo stravolgimento dell’istituzione universitaria, non significa andare controcorrente, ma constatare un’ovvietà. D’altra parte anche il Presidente della CRUI è consapevole dei rischi di tale stravolgimento o meglio della subordinazione al mercato. Infatti scrive: << Lo sviluppo della conoscenza sarebbe a forte rischio se subordinato esclusivamente a logiche di mercato. Si avrebbe il declino di aree di grande rilevanza culturale poco appetite dal mercato>> (Trombetti G., Tre misure urgenti per il rilancio
dell’Università, Sole 24 Ore, 26 maggio 2006).
Se ha ragione Trombetti possiamo solo ipocritamente chiederci: fino a che punto il mondo universitario può piegarsi alla logica del mercato, senza diventarne un’appendice?

Alessandra Ciattini

Piersante SESTINI (Siena):

Il dibattito mi pare insolitamente vitale e già questa è una gran cosa. Alcuni aspetti IMO positivi che mi pare di aver colto nel dibattito finora:

1) Volontà da parte dei più di essere propositivi e positivi: con i “no” e basta ci si trova a spendere energie futilmente in una pessima compagnia di conservatori, nostalgici e neorestauratori, come è puntualmente successo nel caso dei provvedimenti della Moratti, risultati poi, come prevedibile, piuttosto innocui sia nel bene che nel male.

2)Riconoscimento che è sulla qualità della formazione che si gioca la questione, e che se non la si misura in qualche modo non si la potra’ modificare. E che per qualità si intende (nello spirito della Costituzione) lo “standard” a cui vogliamo portare tutti (o quasi) gli studenti, non pochi “eccellenti”. Il che non esclude ovviamente che diverse sedi, o studenti della stessa sede, non possano raggiungere livelli diversi. Per questo serve un sistema serio di valutazione e
certificazione della qualità della formazione. In questo rimarcherei due cose:
a)la diatriba su come fosse la formazione prima della riforma si risolve facilmente: dava ad alcuni una ottima formazione ma era disomogenea per facolta’, sede, gruppi di studenti. L’idea del 3+2 per tutto e tutti era fin dall’inizio visibilmente cretina, ma questo non vuol dire che cio’ che c’era prima fosse l’eta’ dell’oro, ne’ che per qualche corso non possa andare ottimamente.
b)stabilito che la valutazione dei prodotti della didattica e della ricerca sarà vitale (e che su questo si gioca quasi tutto), va detto chiaro che il CIVR e’ un pessimo modo di farla che pare messa su dagli “autoeccellenti” per dare fumo negli occhi e garantirsi risorse ai danni di tutti gli altri. Un sistema di valutazione serve principalmente ad identificare i punti deboli che necessitano di interventi, non i “punti di eccellenza”.

3)Ricerca di un modo positivo e non ambiguo di ridefinire l'”autonomia universitaria”, che non puo’ essere intesa, com’e’ ora, “voi ci date i soldi e noi si spendono come ci pare”, ma va coniugata al principio di responsabilità (per cui chi paga si prende la responsabilità delle scelte) e ad una reale liberalizzazione, dal momento che i modi e i tempi mecessari per raggiungere uno standard di qualità ovviamente possono cambiare da caso a caso e anche da sede a sede. L’aspetto che ho sempre apprezzato di più nell’ANDU è la ricerca di un modo di dare forza alle molte forze capaci e volonterose presenti nell’università. E’ bene pero’ rendersi conto che da sole queste forze non ce la fanno ed è tempo di guardarsi attorno e di cercare alleati anche fuori dell’università. All’interno di un percorso che non ammettera’ soluzioni semplicistiche, l’abolizione dei concorsi e del valore legale del titolo di studio (o comunque un qualche meccanismo di disinnesco delle “cupole” dei settori disciplinari) mi paiono due possibilità da discutere e non demonizzare.

saluti,
Piersante Sestini
Professore associato di Malattie Respiratorie
Università di Siena

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